Il logo dell’informazione

L’intelligenza artificiale ha ormai assunto la forma di un logo globale, un marchio che lampeggia ovunque: dalle slide dei consulenti agli spot di Microsoft fino ai comunicati euforici dei CEO di Silicon Valley. Il problema, come spesso accade quando il marketing corre più veloce della contabilità, è che questo logo costa più di quanto le aziende siano disposte a pagare. Sam Altman dichiara che la crescita dell’uso dei servizi di intelligenza artificiale è sorprendente. Eppure gli stessi giornali che riportano le sue parole mostrano clienti confusi, aziende reticenti, CFO che guardano i preventivi dei data center come fossero bollette del gas in pieno inverno europeo.

La contraddizione è plateale. Da un lato Nvidia che nuota in miliardi vendendo chip come fossero lingotti, dall’altro Microsoft che fatica a convincere gli utenti di Office a spendere di più per una funzione che suggerisce frasi già scritte. La narrativa del “non possiamo permetterci di non investire nell’IA” entra in collisione con la realtà dei budget, che non hanno alcuna intenzione di coprire i costi mostruosi di calcolo, storage e raffreddamento.

Il rapporto di Bain è un pugno nello stomaco. Le aziende spendono troppo poco in IT per giustificare i rinnovi infrastrutturali che l’IA richiede. Perché la verità è che un modello linguistico non vive di aria e slide motivazionali, ma di GPU che divorano energia come centrali elettriche e di data center che chiedono acqua come un deserto assetato. Parlare di adozione IA senza parlare dei costi IA è come raccontare la Ferrari senza citare la benzina.

Il paradosso sta tutto qui. Da una parte i consumatori non sembrano particolarmente desiderosi di pagare per chatbot più intelligenti del necessario. Dall’altra parte i manager aziendali si chiedono come spiegare agli azionisti che l’ultima ondata di intelligenza artificiale generativa, per quanto affascinante, non porta ancora un ritorno tangibile. Il Financial Times non ha fatto sconti nel raccontare come le big corporate arrancano nel quantificare il valore. E senza un business case credibile, l’IA rischia di trasformarsi nel nuovo “metaverso”, l’hype più costoso della storia recente.

Altman però rilancia, e lo fa con la tipica postura visionaria che manda in visibilio gli investitori. Scrive che l’accesso all’IA diventerà un motore fondamentale dell’economia e forse un diritto umano. Il linguaggio è altisonante, quasi religioso. Non è un caso che Nvidia e OpenAI stiano già negoziando partnership miliardarie per i data center IA, come se si trattasse di una nuova infrastruttura critica globale. Si parla di finanziamenti creativi, di formule non ancora divulgate. Tradotto: stiamo cercando di capire come convincere il mercato a pagare il conto astronomico senza scatenare una crisi sistemica.

La questione diventa economica e politica allo stesso tempo. Il capo economista di Apollo Global Management, Torsten Slok, ha scritto nero su bianco che gli investitori azionari sono drammaticamente sovraesposti all’IA. Tradotto in linguaggio meno tecnico: la giostra gira troppo veloce e quando si fermerà qualcuno si farà male. Non bastano le frasi rassicuranti o le previsioni di crescita esponenziale. Ci vogliono modelli di business veri. Perché finché l’intelligenza artificiale rimane un enorme centro di costo mascherato da logo scintillante, la disillusione è dietro l’angolo.

L’ironia è che in questo momento l’IA è contemporaneamente troppo costosa e troppo importante per essere ignorata. Nessuno vuole restare indietro, tutti fingono di averla adottata, ma pochi possono permettersela davvero. Le banche investono in progetti pilota, le assicurazioni sperimentano, i retailer cercano di capire se la personalizzazione vale miliardi o solo spiccioli. Intanto i costi ambientali restano sotto traccia, come se l’acqua necessaria a raffreddare le server farm fosse un dettaglio marginale e non un fattore geopolitico.

Il dibattito ricorda da vicino le bolle speculative del passato. Una corsa frenetica ad accaparrarsi risorse scarse, una narrativa che si autoalimenta, e una base di utenti che ancora non vede motivi concreti per aprire il portafoglio. Siamo di fronte a un’adozione IA che si misura più in comunicati stampa che in revenue reali. E intanto la domanda insaziabile di capacità di calcolo si traduce in colli di bottiglia infrastrutturali che neppure i giganti riescono a risolvere senza alleanze e miliardi freschi.

Il punto dolente è che gli sviluppatori di intelligenza artificiale non hanno intenzione di rallentare. Al contrario, cavalcano il momentum cercando di blindare la narrativa del “senza IA non c’è futuro”. Un messaggio che funziona benissimo sugli investitori, ma molto meno sui clienti che devono integrare i sistemi nei processi quotidiani. Perché se un’azienda paga milioni per automatizzare un flusso documentale e poi scopre che deve spendere altrettanto in GPU e consulenti per tenerlo in piedi, l’entusiasmo evapora.

Non è un caso che l’ecosistema inizi a cercare soluzioni finanziarie ibride, dal leasing di data center alle partnership pubblico private. Qualcuno ipotizza persino bond sovrani dedicati all’infrastruttura IA, come se fosse l’equivalente digitale delle ferrovie nell’Ottocento. Suggestivo, certo, ma anche rischioso. Perché dietro le promesse di efficienza, produttività e innovazione si nasconde un costo strutturale che pochi sono pronti ad affrontare.

In definitiva, la discrepanza non è tanto tecnologica quanto finanziaria e politica. L’intelligenza artificiale funziona, sorprende, conquista, ma non è gratis. E il mondo, per ora, non sembra avere né la liquidità né la volontà di pagarla in modo sostenibile. Altman può dire che non possiamo permetterci di non investirci, ma la realtà dei bilanci dice che non possiamo permetterci di investirci senza sacrificare altro. È un gioco di prestigio che tiene ancora il pubblico incantato, ma basta un colpo di vento perché si intravedano i fili dietro le quinte.

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