Un giorno qualcuno ci racconterà che il futuro dell’agricoltura non è nato nelle campagne, ma in un magazzino illuminato da LED a Hong Kong, sotto il marchio di una blockchain. È qui che Peaq, una rete Layer-1 specializzata nell’economia delle macchine, ha annunciato la nascita della prima robo-farm tokenizzata al mondo, una verticale industriale che non produce soltanto lattuga e spinaci, ma anche flussi di cassa digitalizzati sotto forma di NFT. È la fusione tra agritech e finanza decentralizzata, la materializzazione di quell’ossessione per gli asset reali tokenizzati che da tempo infesta le presentazioni dei venture capitalist.

L’idea è dirompente perché mette insieme tre ossessioni moderne: automazione agricola, sostenibilità e tokenizzazione. DualMint si occuperà di trasformare le entrate della farm in gettoni digitali, KanayaAI fornirà la tecnologia di vertical farming e Peaq farà da infrastruttura blockchain. Il risultato è un impianto urbano che promette dodici cicli di raccolto all’anno, senza pesticidi, con un decimo dell’acqua rispetto ai campi tradizionali e con una resa del 20% che suona più come un pitch da startup che come una promessa agricola. Ma dopotutto, cosa aspettarsi da un business che vuole mettere la lattuga on-chain?

Il vertical farming non è certo una novità, eppure qui acquista una valenza ideologica. Da tempo gli evangelisti di questa pratica sostengono che coltivare in verticale, in ambienti chiusi e controllati, sia l’unico modo per sfamare metropoli in continua espansione senza devastare il pianeta. È vero che un impianto del genere usa meno risorse e garantisce raccolti costanti indipendentemente dalle stagioni, ma il dettaglio che infiamma gli investitori è la scalabilità digitale: il raccolto non è più solo cibo, ma un cash flow tokenizzato e scambiabile su blockchain. In altre parole, la lattuga diventa un asset finanziario che può essere frazionato e venduto come azioni di una tech company.

Naturalmente la retorica è seducente. L’immagine di una macchina che produce cibo senza pause, senza pesticidi e con margini da hedge fund ha un fascino quasi biblico. Leonard Dorlöchter, co-fondatore di Peaq, ha parlato di infrastruttura alimentare critica, quasi a voler posizionare la robo-farm come parte integrante della sicurezza nazionale. Ma sotto la patina visionaria restano i soliti dubbi: quanto costa realmente gestire un impianto simile? Quanto incide la bolletta elettrica per mantenere le luci LED e i sistemi climatici attivi ventiquattro ore su ventiquattro? Domande che gli investitori preferiscono rimandare, almeno finché gli NFT della lattuga generano hype.

Il concetto di economia delle macchine entra qui con forza. Peaq non è soltanto una blockchain generica, ma una piattaforma nata per collegare robot, veicoli autonomi e dispositivi IoT, assegnando loro identità digitali e capacità economiche. La robo-farm tokenizzata è dunque una vetrina perfetta: un sistema autonomo che produce beni fisici, li vende e distribuisce i profitti in modo programmato, senza bisogno di intermediari. L’idea che una macchina possa generare non solo cibo ma anche rendimenti per gli investitori ridefinisce la nozione stessa di asset. È come se il robot fosse sia la fabbrica sia la banca.

C’è però un lato oscuro. I sistemi di vertical farming automatizzato hanno barriere all’ingresso enormi: capitale, know-how tecnico, consumo energetico. Non è difficile immaginare un futuro in cui poche entità ben finanziate controllano intere filiere alimentari urbane, tokenizzando ogni grammo di lattuga come se fosse un titolo di stato. Gli analisti più cinici già avvertono che il rischio non è solo tecnico ma sociale: la promessa di democratizzazione tramite tokenizzazione potrebbe tradursi in una nuova concentrazione di potere. Del resto, non è la prima volta che la blockchain vende la favola della disintermediazione, per poi riprodurre gli stessi oligopoli che diceva di combattere.

Allo stesso tempo, non si può ignorare il potenziale. Con una popolazione urbana in crescita e crisi idriche sempre più frequenti, l’idea di una rete di robo-farm distribuite nelle città ha una logica innegabile. Se poi queste infrastrutture possono autofinanziarsi attraverso la tokenizzazione dei propri ricavi, allora la sostenibilità smette di essere un costo e diventa un prodotto investibile. È qui che l’innovazione si fa pericolosamente affascinante: l’equilibrio tra nutrire le persone e soddisfare i rendimenti degli investitori potrebbe spostarsi di colpo dalla narrativa green a quella puramente finanziaria.

Il caso di Hong Kong è un test. Un mercato densamente popolato, con scarsità di terreni e forte domanda di soluzioni urbane innovative, è il laboratorio ideale per provare a trasformare la lattuga in un asset liquido. Se funziona, il modello potrebbe replicarsi in altre metropoli globali, dal Medio Oriente alle megalopoli americane. A quel punto, la robo-farm tokenizzata non sarebbe più una curiosità tecnologica, ma un nuovo paradigma di produzione e investimento. Qualcuno dirà che il cibo diventa finanza, altri che la finanza diventa cibo. In entrambi i casi, il risultato è lo stesso: un’inedita fusione tra blockchain e agricoltura che ridefinisce i confini del possibile.

La storia della lattuga tokenizzata è dunque meno ridicola di quanto sembri a prima vista. È la dimostrazione che la tokenizzazione degli asset reali non si limita a immobili o opere d’arte, ma può colonizzare anche settori vitali come il foodtech. E come ogni innovazione radicale, porta con sé entusiasmi e pericoli. Si può sorridere all’idea di comprare un NFT di spinaci, ma se quella transazione rappresenta una quota reale di un ciclo produttivo autonomo, allora ci troviamo di fronte a un nuovo modello di capitalismo macchinico, dove le fabbriche agricole non hanno contadini ma algoritmi e il capitale circola direttamente tra consumatori e robot. Benvenuti nel futuro in cui la lattuga non cresce nei campi, ma sugli smart contract.