Siamo passati dal “like” alla voce umana sintetica nel tempo di uno scroll su Threads. Meta, dopo aver flirtato con ogni pezzo di intelligenza artificiale in circolazione, ha finalmente messo la firma su Play AI, una startup che sussurrava all’orecchio delle macchine. Non è solo una notizia, è una dichiarazione di guerra all’anonimato delle AI. La voce è il nuovo volto, e Meta lo sa fin troppo bene.

Secondo Bloomberg, che ha ricevuto conferma direttamente da un portavoce aziendale, tutta la squadra di Play AI entrerà a far parte dell’ecosistema Zuckerbergiano già dalla prossima settimana. Nessun dettaglio sui soldi – e quando Meta non parla di cifre, di solito vuol dire che non erano noccioline. In un memo interno, l’azienda ha definito il lavoro di Play AI “perfettamente allineato” con la roadmap strategica in ambiti come AI Characters, Meta AI, dispositivi wearable e creazione di contenuti audio. Come dire: ci serve una voce credibile per gli avatar che ci vendono il Metaverso, e non possiamo più affidarci a Google Translate.

Play AI non è un nome di grido, almeno non ancora. Ma è una di quelle startup che fanno il rumore giusto nei corridoi giusti: quelli dove le big tech vanno a caccia di organi da trapiantare nei loro Frankenstein digitali. Play AI ha sviluppato un sistema per generare voci sintetiche che suonano come le nostre. Non metalliche, non robotiche, non da assistente vocale disperato. Ma voci che raccontano, che seducono, che vendono, che discutono. In breve: voci che fanno engagement. Quello vero.

Meta, nel frattempo, ha il piede schiacciato sull’acceleratore dell’IA. Dopo aver pescato a strascico talenti da OpenAI, ora punta a costruire la sua divisione “superintelligence”. A capo di tutto questo c’è Alexandr Wang, il fondatore di Scale AI, passato direttamente in casa Meta per guidare una nuova unità che suona più come un laboratorio segreto che un dipartimento. Sì, avete capito bene: Wang, l’enfant prodige dell’etichettatura dati, adesso ha il badge blu della Silicon Valley più spavalda.

L’operazione Play AI va letta in questa chiave: non è solo un’acquisizione, è una colonizzazione della dimensione sonora dell’intelligenza artificiale. Perché se l’AI deve diventare un “character”, un’entità credibile e relazionabile, allora deve parlare. E parlare bene. Non basta più scrivere testi generativi o inventare immagini psichedeliche. Serve una voce che faccia dimenticare che dietro c’è una macchina. Una voce che convinca, comandi, intrattenga. Una voce che venda. L’AI che non parla non guadagna. L’AI che parla male, fa perdere quote di mercato.

A pensarci bene, questa corsa alla voce non è nuova. OpenAI lo sa da tempo, tant’è che ha integrato voci sempre più naturali nei suoi modelli conversazionali. Google sta facendo lo stesso con SynthID e le tecnologie di text-to-speech. Amazon ha Alexa, che ormai ha superato la sindrome da centralinista anni ’90. Ma Meta, fino a ieri, sembrava in ritardo. Ora con Play AI colma il gap e lancia un messaggio chiaro: l’era delle IA silenziose è finita.

Non è un caso che Play AI venga messa al lavoro su più fronti. AI Characters l’iniziativa con cui Meta vuole popolare il metaverso e i suoi spazi sociali con personaggi digitali dotati di personalità ha bisogno di voci che non sembrino uscite da un videogioco del 2005. Wearables, i futuri dispositivi indossabili che sostituiranno lo smartphone, avranno bisogno di interfacce vocali continue, fluide, empatiche. Infine c’è la produzione audio: podcast, clip vocali, contenuti immersivi. Tutto ciò che oggi si registra in studio, domani potrà essere generato con un prompt.

Questo cambia tutto. Per chi lavora nel doppiaggio, nella pubblicità, nei contenuti vocali, è uno tsunami. Per i content creator è una promessa e una minaccia insieme. Avremo a disposizione voci su misura, personalizzabili, clonabili. Potremo scrivere un copione e avere un attore vocale istantaneo. Ma dovremo anche competere con un esercito di voci sintetiche capaci di fare tutto, sempre, in qualsiasi lingua, senza stancarsi né chiedere un compenso. È il capitalismo dell’ugola artificiale.

L’aspetto più inquietante? Meta sta costruendo un universo parallelo in cui ogni elemento – visivo, testuale, vocale – è generato da un’IA e ottimizzato per l’interazione umana. Un Truman Show algoritmico, dove ogni personaggio ha una voce perfetta e un copione scritto da modelli linguistici. Se Play AI è il nuovo microfono, allora la superintelligenza è il regista. E noi, come al solito, siamo il pubblico inconsapevole che applaude.

Nessuna informazione sulle cifre dell’accordo, ripetiamolo. Ma non servono per capirne il valore. In un mercato dove il suono è il nuovo terreno di conquista dell’intelligenza artificiale, Play AI è una pedina strategica. E Meta, che ha perso terreno sul fronte delle LLM rispetto a OpenAI e Google, ora rilancia dalla gola. Se non puoi batterli nel cervello, conquista le corde vocali.

Il gioco è chiaro: generare una realtà parallela parlante, dove l’utente interagisce con IA sempre più convincenti, persino più delle persone vere. È qui che si gioca il vero metaverso. Non quello dei visori VR ingombranti e dei party digitali desolanti. Ma quello in cui ogni interazione, ogni suggerimento, ogni contenuto è mediato da una voce che ci sembra amica, familiare, autorevole. Una voce creata da un algoritmo, calibrata per la nostra psicologia, pronta a venderci qualsiasi cosa con tono pacato, intimo, irresistibile.

L’ironia? Zuckerberg, l’uomo che ha reso il mondo social testuale, ora punta tutto sull’audio. Dopo averci spinto a scrivere status, commenti, post, ora vuole che ascoltiamo. Ma non gli altri: le sue intelligenze artificiali. Quelle che parlano meglio di noi, e che forse un giorno decideranno anche per noi. Perché se la voce è potere, Meta vuole che quel potere abbia un suono perfettamente umano. E totalmente artificiale.