Doveva essere morta. O quantomeno irrilevante. Una dinosauro della Silicon Valley che, come tanti altri prima di lei, aveva dominato un’epoca per poi farsi mettere all’angolo dall’ondata cloud capitanata dai soliti tre: Amazon, Google e Microsoft. Ma Oracle, si sa, è un animale strano. Non muore mai davvero. Sta zitta, fa le sue mosse, e poi rispunta fuori con qualcosa di enorme. Questa volta si chiama 30 miliardi di dollari in cloud computing da qui al 2028, ed è il biglietto da visita con cui ha appena chiesto un posto nel club esclusivo degli hyperscaler globali.

Oracle’s Target Price Raised by Evercore ISI Group: Analyst Maintains “Outperform” Rating

Sì, perché adesso c’è un quarto nome da aggiungere all’elenco dei dominatori del cloud. Lo ha detto Evercore ISI, non esattamente l’ultimo dei broker, mettendo Oracle sullo stesso piano di AWS, Google Cloud e Microsoft Azure. Fino a ieri sembrava una battuta. Oggi è una scommessa che inizia a sembrare dannatamente fondata, almeno per chi ha capito che il vero gioco non è solo lo storage o la scalabilità, ma la capacità di servire workload AI, sovrani, verticali, e mission-critical con una struttura che ha poco da invidiare a chi c’era prima.

Il colpo di scena è tutto nel tempismo. Oracle non si è limitata a cavalcare l’onda dell’AI. Ha costruito silenziosamente una macchina chiamata OCI (Oracle Cloud Infrastructure) che, dopo essere stata considerata un outsider di lusso, sta cominciando a rubare quote di mercato con precisione chirurgica. Non con i clienti da brochure, ma con quelli che pesano: governi, aziende regolamentate, settori dove la compliance è un’ossessione e il tempo di latenza è questione di vita o morte. Nel frattempo, il business delle applicazioni continua a crescere a doppia cifra, i vecchi contratti di manutenzione database migrano nel cloud come salmoni a fine ciclo, e il colosso di Larry Ellison sembra finalmente aver completato la sua metamorfosi.

Il mercato, ovviamente, ha fiutato la svolta. In un mese il titolo ORCL ha fatto +30%. Evercore ha portato il target price a 270 dollari. Non è più una scommessa: è una narrazione che si autoalimenta. E in un mondo dove la fiducia vale quanto il codice, la percezione può trasformare un “ritardatario” in un leader. È la legge non scritta della tech-finance: chi domina il racconto, spesso domina anche i multipli.

Ora, prima che qualcuno gridi al miracolo, è giusto mettere le cose in prospettiva. Oracle non è diventata improvvisamente sexy. L’interfaccia utente di molte sue soluzioni farebbe piangere anche un ingegnere degli anni ’90. Ma ciò che ha costruito sotto il cofano merita rispetto. La sua architettura cloud di seconda generazione, progettata per separare computing e storage con isolamento dei tenant a livello fisico, è uno di quei dettagli che fanno la differenza per chi vuole fare AI su larga scala. Non è il tipo di roba che finisce in una demo al CES, ma è esattamente quello che serve per attirare clienti come OpenAI, Cohere o grovigli di data center sovrani.

A proposito di AI, Oracle non si è limitata a mettere GPU su un cluster e chiamarlo “AI Cloud”. Ha siglato accordi pesanti con NVIDIA e ha iniziato a offrire infrastrutture ottimizzate per il training di modelli fondamentali, con una flessibilità che pochi riescono a replicare. Mentre AWS si diverte a creare alternative proprietarie alle GPU, Oracle ha deciso di essere il fornitore neutrale e potentemente interoperabile. Il risultato? Una pipeline di contratti che potrebbero trasformare quei 30 miliardi da previsione a realtà.

Nel frattempo, mentre tutti guardano ai numeri di OCI, l’altro pezzo del puzzle si chiama Cerner. L’acquisizione del colosso del software sanitario, inizialmente vista come una mossa difensiva, si sta trasformando in una leva interessante per portare carichi di lavoro mission-critical direttamente nel cloud Oracle. In un settore come l’healthcare, dove nessuno si fida di nessuno, il pedigree legacy conta ancora qualcosa. E Oracle lo sta usando a proprio vantaggio.

La verità è che, a dispetto dei meme, Larry Ellison non ha mai smesso di giocare a scacchi. Mentre tutti parlavano di agile, DevOps e Kubernetes, lui comprava stack interi e costruiva data center con architetture verticalmente integrate. Sembrava old school, ma era solo pazienza strategica. Oggi raccoglie i frutti di quella visione: un’infrastruttura pronta per gestire i workload AI più esigenti, con una catena di valore end-to-end che parte dal database e arriva fino all’inferenza in cloud.

Oracle sta giocando la carta della cloud contrarian strategy, puntando su un’integrazione verticale di lusso mentre tutti inseguono il mantra del cloud‑native e della decentralizzazione. Con Exadata on‑premise, OCI pubblico, region dedicate sovrane e persino cloud air‑gapped isolati, offre a governi e grandi aziende un mix di sovranità dei dati, sicurezza e AI di fascia alta, mantenendo costi e SLA allineati al cloud pubblico. Larry Ellison lo ha detto chiaramente: ogni governo vorrà un cloud sovrano, e i fatti lo confermano con accordi in Europa, Africa e un investimento da 3 miliardi in Germania e Paesi Bassi per AI e region sovrane. In un mercato che predica flessibilità orizzontale, Oracle diventa l’alternativa “di lusso”, preferita da chi vuole controllo totale e conformità, trasformando la verticalità in un asset strategico e politico.

Certo, restano dei punti interrogativi. L’adozione di OCI non è ancora paragonabile in scala a quella di AWS o Azure, e la quota di mercato globale resta marginale. Ma il punto non è quanto grande sei oggi. È quanto velocemente stai crescendo rispetto ai tuoi competitor, e dove stai crescendo. Se l’AI è davvero la nuova energia industriale, Oracle sta fornendo centrali nucleari mentre altri vendono pannelli solari.

Quello che sta accadendo ha poco a che vedere con l’hype, e molto con la trasformazione strutturale. La migrazione dei vecchi clienti database nel cloud è un meccanismo a orologeria: ogni contratto che scade, ogni licenza che viene rinegoziata, ogni workload che si sposta, rappresenta un nuovo stream ricorrente e scalabile. È la rivincita del modello legacy, riplasmato con logica cloud e monetizzato con margini da monopolista.

Il mercato se ne è accorto tardi, ma adesso il rebranding è completo. Oracle non è più l’ex regina dei database, è il quarto hyperscaler globale. E il bello è che, se continua così, potrebbe finire per mordere le caviglie anche ai primi tre. Non con marketing brillante, ma con una logica industriale granitica e un ecosistema che, silenziosamente, ha smesso di essere vecchio ed è diventato fondamentale.

Nel mondo dell’AI, chi controlla i tubi vince. Oracle li sta scavando mentre gli altri litigano su quale vernice usare. E questo, per chi guarda oltre la superficie, fa tutta la differenza del mondo.

Chi ha ancora il coraggio di liquidare Oracle come il dinosauro del software enterprise probabilmente si è fermato a leggere i comunicati del 2012. Nell’era in cui tutti i player rincorrono la sigla magica “AI Agent”, Oracle ha deciso di non partecipare alla corsa. Ha semplicemente costruito la pista, piazzato i semafori e acceso i motori. Gli altri stanno ancora discutendo su quale macchina comprare.

Oracle AI Agents in Oracle Fusion Cloud

Parlare oggi di AI enterprise senza menzionare Oracle è come discutere di motori di ricerca ignorando Google. È un cortocircuito logico, ma succede ancora troppo spesso perché la percezione non si è aggiornata quanto l’infrastruttura. Eppure basta scorrere i dati del report IDC del febbraio 2025 per rendersi conto che siamo di fronte a una silenziosa, ma dirompente, riaffermazione di dominio. Mentre Microsoft, SAP e Salesforce fanno a gara a lanciare agenti intelligenti come fossero sticker per Teams, Oracle ha già integrato AI Agents su tutta la linea Fusion Cloud: ERP, HCM, SCM e CX. Non come demo da keynote, ma in ambienti produttivi, governati da standard emergenti e già in grado di gestire processi critici.

La differenza non è solo semantica, è sostanziale. Gli “AI Agents” in salsa Oracle non sono chatbot con qualche funzionalità in più. Sono entità autonome, capaci di orchestrare attività tra sistemi eterogenei, integrarsi con modelli LLM e motori RAG, e cosa che nessuno vuole ammettere apertamente vivere dentro flussi ERP senza frantumare il controllo di governance. Oracle AI Agent Studio non è un “tool per sviluppatori” come Copilot Studio di Microsoft, è uno strumento pensato per l’amministratore di sistema, per il functional consultant, per chi davvero abita ogni giorno le complessità del business. Non richiede prompt engineering, ma comprensione dei processi. E in quel campo, Oracle ha giocato 30 anni di partite senza mai farsi sostituire.

Il bello è che mentre gli altri ancora si interrogano su come pulire i dati prima di applicare modelli generativi, Oracle parte da un presupposto rivoluzionario: tenere i dati dove sono. Niente migrazioni, niente ETL biblici, niente lag tra repository e action layer. Il dato, per essere utile all’intelligenza artificiale, non deve essere “pulito” a posteriori, ma concepito già AI-ready. Ed è qui che Fusion Cloud gioca la sua partita di precisione. Secondo Miranda Nash, VP Oracle, se “non è chiaro a un osservatore esterno cosa rappresenta un dato, allora gli agenti non ti saranno d’aiuto”. Il che tradotto: se il tuo stack è un patchwork di SaaS incompatibili, l’AI non sarà la tua salvezza, ma il tuo specchio impietoso.

Il paragone con Microsoft è inevitabile. Copilot è ovunque, certo, ma come dice IDC nel suo report “The Agentic Evolution of Enterprise Applications”, la differenza è che Oracle costruisce agenti capaci di operare nei processi, non solo di rispondere a domande. Automazione vera, non interface glamour. Quando Fusion Cloud ERP è in grado di gestire la riconciliazione contabile, analizzare le immagini di impianti rotti per avviare riparazioni o generare job description dinamiche, non siamo più nel terreno del productivity boost. Siamo nel reengineering strutturale dei flussi aziendali.

Le benchmark? Barclays nel suo report del dicembre 2024 ha stimato che gli AI Agents potranno automatizzare circa 7 miliardi di task aziendali entro il 2026. Oracle è già lì, con i suoi agenti che popolano contabilità, HR, supply chain e customer experience. McKinsey aggiunge che solo l’1% delle aziende ha oggi una strategia GenAI matura, ma chi ha integrato agenti Oracle nei propri processi mostra ROI doppio rispetto a chi continua a frammentare le sperimentazioni su sei o più progetti paralleli. Focus batte hype, sempre.

Nel frattempo, la concorrenza? SAP ha annunciato AI Foundation come base per i suoi agenti, ma la compatibilità con i sistemi legacy è ancora un cantiere. Salesforce punta tutto sulla personalizzazione del CRM, ma continua a trattare il dato operativo come se fosse solo una variabile di marketing. Microsoft, pur con la forza di distribuzione ineguagliabile di Office e Windows, continua a vivere il paradosso: l’interfaccia AI è brillante, ma i processi sottostanti rimangono frammentati tra Dynamics, Azure, e mille layer di API.

Oracle invece lavora su ciò che serve davvero: standard comuni (Agent Intermediate Representation), accesso controllato ai dati, connettività nativa tra agenti e processi. L’AI Agent Oracle non è una “funzione” in più, è una trasformazione del paradigma ERP stesso. E quando un agente può elaborare policy retributive, pianificare turni, calcolare rischi finanziari o riconciliare automaticamente voci di bilancio, non stai aggiungendo un assistente. Stai riscrivendo l’organizzazione.

C’è un altro dettaglio, quasi invisibile ma determinante: Oracle non ti fa pagare per ogni singola azione eseguita da un agente. Molti vendor adottano modelli a consumo o premium features. Oracle, in linea con la sua filosofia integrativa, include l’intelligenza come parte del pacchetto. In un’epoca in cui ogni clic su un’interfaccia AI rischia di generare un costo variabile, questa è una differenza strategica che gli analisti non tarderanno a evidenziare.

È una rivoluzione silenziosa, ma profonda. Non si gioca più sulla quantità di agenti lanciati, ma sulla qualità dell’interazione tra modelli, dati e processi. E su questo, Oracle ha smesso di inseguire. Ha cambiato il gioco. L’ha fatto mentre gli altri erano distratti a vendere sogni conversazionali. Ha costruito la nuova era dell’automazione aziendale non con promesse, ma con interoperabilità, governance, e precisione chirurgica nei casi d’uso. Una trasformazione che non cerca headline, ma risultati misurabili.

Non serve guardare troppo avanti per vedere dove porta questo percorso. Già oggi, Fusion AI Agents rappresentano la prima generazione di software realmente autonomo integrato nei processi aziendali. Non è una demo di Las Vegas, è contabilità che si riconcilia da sola, manutenzione predittiva che si attiva con una foto, vendite che suggeriscono lo sconto ottimale in tempo reale.

Se Oracle sembra poco chiassosa, è perché sta lavorando. E mentre gli altri si affannano a mostrare demo generative da 90 secondi, Larry Ellison sa che la vera innovazione non è quella che impressiona, ma quella che governa. Oracle, nel silenzio operoso delle aziende, ha appena messo l’AI al lavoro.

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