La Casa Bianca ha fatto il suo solito numero da circo, mercoledì, puntando i riflettori su un presunto “complotto traditore” orchestrato da Barack Obama contro Donald Trump, un’accusa talmente spettacolare da sembrare scritta da un fanatico di QAnon con un debole per i thriller di serie B. Il tempismo, naturalmente, perfetto. C’era bisogno di distogliere l’attenzione dal disastroso imbarazzo per la gestione del caso Epstein e quale miglior diversivo se non resuscitare la vecchia narrativa del colpo di stato contro il leader dell’America “vera”.

Tulsi Gabbard, ormai consacrata a musa dell’intelligence trumpiana, ha dichiarato davanti ai giornalisti della Casa Bianca che Obama avrebbe guidato un “colpo di stato durato anni”. Certo, perché tra una riforma sanitaria e un Nobel per la pace, l’ex presidente avrebbe trovato il tempo di orchestrare un golpe hollywoodiano contro il miliardario newyorchese più amato dai talk show di destra. La trama, già nota, è una riedizione sbiadita della solita storia trumpiana: l’inchiesta sull’interferenza russa del 2016, quella che ha reso Hillary Clinton un caso clinico di rimpianto eterno, era “tutta una farsa” per incastrare il magnate che amava farsi fotografare su jet dorati.

Gabbard ha brandito, con l’aria di chi ha appena trovato le Tavole della Legge, nuovi documenti “declassificati” che proverebbero, cito testualmente, “in modo inconfutabile” che Obama avesse ordinato di manipolare le valutazioni d’intelligence per accusare la Russia di aver aiutato Trump. Peccato che quattro inchieste ufficiali tra il 2019 e il 2023 – penali, controspionistiche e di organismi indipendenti – abbiano già concluso, con fastidiosa insistenza, che Mosca sì, interferì e sì, favorì Trump. Ma perché rovinare una buona storia con la realtà?

Il Dipartimento di Giustizia, nel frattempo, ha messo in piedi una “Strike Force” per investigare su queste accuse “con la massima serietà”. Una definizione che fa pensare più a una serie Netflix che a un’indagine federale. L’ufficio post-presidenziale di Obama ha liquidato tutto con elegante sprezzatura: “Accuse bizzarre e un patetico tentativo di distrazione”, parole di Patrick Rodenbush, portavoce con il dono dell’understatement.

Distrazione, già. Perché il vero problema di Trump si chiama Jeffrey Epstein. Il tentativo di cambiare conversazione ha funzionato per qualche ora. I giornalisti nella sala stampa della Casa Bianca hanno evitato domande sul miliardario pedofilo per rincorrere il nuovo filone contro Obama, e Fox News ha fatto quello che sa fare meglio: pompaggio mediatico per le masse assetate di cospirazioni. Ma la festa è durata poco. Il caso Epstein è tornato a ringhiare come un cane rabbioso, ricordando al settantanovenne Trump che il suo controllo delle narrazioni mediatiche non è più quello dei giorni d’oro del primo mandato, nemmeno tra i fedelissimi del culto Maga.

Un gigantesco cartellone a Times Square chiedeva, proprio in quelle ore, il rilascio dei file Epstein. Una scenografia perfetta per un ex presidente che sperava di seppellire il tema sotto montagne di sospetti anti-Obama. Perché Epstein non era solo un finanziere decaduto. Era un uomo di salotti importanti, amico di gente che conta, Trump incluso. Il suo suicidio in cella nel 2019 – ufficialmente tale, ma per i teorici della cospirazione un omicidio di Stato – alimenta da anni la leggenda di un traffico internazionale di minorenni protetto da élite decise a farlo tacere per sempre.

Trump, tornato al potere a gennaio, aveva promesso di rilasciare i file sul caso Epstein. Promesse che valgono quanto un coupon scaduto. Il 7 luglio il Procuratore Generale Pam Bondi ha annunciato che non c’era nulla da pubblicare. I Repubblicani sono esplosi di rabbia, e Trump, nel tentativo disperato di contenere il fuoco amico, è finito in un vortice di rivelazioni imbarazzanti.

Il Wall Street Journal, con tempismo chirurgico, ha pubblicato un articolo che raccontava di una lettera di auguri particolarmente sconcia che Trump avrebbe inviato a Epstein nel 2003. Trump ha smentito e querelato il giornale, ovviamente. Ma il colpo più pesante è arrivato sempre dal Journal, che ha rivelato come Bondi, a maggio, avesse informato Trump che il suo nome compare più volte nei documenti Epstein, sebbene senza prove di reati. Il portavoce di Trump, Steven Cheung, ha liquidato tutto come “fake news”, ricordando che Trump avrebbe “cacciato Epstein dal suo club anni fa perché era un tipo losco”. Una frase che suona come un biglietto d’addio firmato con inchiostro simpatico.

Il problema è che la narrazione non si ferma. Ogni goccia che cade da questa spugna imbevuta di scandalo è veleno puro per l’immagine presidenziale. Molti dei più zelanti promotori di Trump, da Kash Patel a Dan Bongino, hanno costruito carriere proprio alimentando i rumors sul caso Epstein, e ora l’effetto boomerang li travolge.

I Democratici stanno sfruttando la debolezza come squali che sentono l’odore del sangue. Mercoledì i leader repubblicani alla Camera hanno interrotto i lavori con largo anticipo, mandando tutti in ferie estive per evitare voti imbarazzanti sull’affaire Epstein. Ma non tutti i conservatori sono disposti a lasciar perdere. I falchi della destra “Masa” stanno preparando richieste di trasparenza e, poco prima della pausa, i Democratici hanno forzato un voto bipartisan per citare in giudizio il Dipartimento di Giustizia e ottenere i documenti segreti su Epstein.

Trump ha tentato l’ennesima mossa disperata ordinando a Bondi di rendere pubbliche informazioni “credibili” e chiedendo la pubblicazione dei verbali delle giurie del 2005 e del 2007. Richiesta respinta mercoledì da un giudice che ha ricordato, con fredda formalità, l’esistenza di norme sulla segretezza legale.

Il risultato è un presidente che arranca tra vecchi fantasmi e nuove ossessioni, mentre cerca di convincere il suo pubblico che la vera minaccia per l’America non è un miliardario pedofilo impiccato in cella, ma un Barack Obama che complotta nell’ombra da anni. La narrativa è vendibile a chi vuole crederci, certo. Ma persino il più fedele spettatore di Fox News, a forza di sentir parlare di Epstein, potrebbe iniziare a pensare che questa volta, forse, il nemico non è a Honolulu, ma a Mar-a-Lago.