Il problema è che quando si gioca a fare il contabile con la scienza, il bilancio finale non torna mai. L’ossessione di Donald Trump per i tagli lineari al bilancio federale sta producendo un cortocircuito che nemmeno i suoi stessi consiglieri sembrano in grado di gestire. Licenziare e riassumere funzionari federali è già diventato un paradosso burocratico, l’esperimento tragicomico di Elon Musk con il suo Dipartimento dell’Efficienza Governativa è stato bollato come fallimento e ora la supremazia americana nell’intelligenza artificiale rischia di trasformarsi da vantaggio competitivo a caso di studio su come distruggere un ecosistema tecnologico in dieci mosse sbagliate.
Il piano d’azione sull’AI presentato dalla Casa Bianca il mese scorso suona come un manifesto di potenza tecnologica, ma senza finanziamenti reali è destinato a rimanere un documento da archiviare nei faldoni di Washington. Non è un’opinione ideologica, è pura aritmetica: senza soldi non c’è ricerca, senza ricerca non c’è innovazione, e senza innovazione gli Stati Uniti finiranno col guardare Cina ed Europa dal binocolo rovesciato.
L’ecosistema che ha sostenuto l’AI americana negli ultimi decenni non si regge sul genio isolato di qualche visionario in Silicon Valley, ma su una rete di finanziamenti pubblici che hanno nutrito università, centri di ricerca e interi settori interdisciplinari.
Gli esempi non mancano e hanno la forza dei fatti. Computer vision per veicoli autonomi, AlphaFold di Google DeepMind per la modellazione delle proteine, perfino l’architettura dei primi modelli di machine learning: tutto nasce da laboratori universitari che hanno respirato ossigeno grazie a fondi federali. Tagliare neuroscienze e discipline affini equivale a segare il ramo su cui ci si siede. La scienza non funziona come una catena di montaggio che produce pezzi standardizzati, è contaminazione continua tra campi, è fertilizzazione incrociata di idee che sembrano irrilevanti fino a quando non diventano il cuore di una rivoluzione tecnologica.
La retorica del “vincere la corsa all’AI” sembra uscita da un discorso motivazionale da campagna elettorale, ma la realtà è che senza investimenti massicci gli Stati Uniti non correranno, zoppicheranno. Siamo solo all’inizio della comprensione di come le reti di neuroni biologici generano memoria e cognizione e ogni passo avanti in neuroscienze ha una ricaduta diretta sui modelli artificiali. Fingere che l’AI possa svilupparsi in isolamento è come credere che la Silicon Valley possa sopravvivere senza elettricità.
Il danno più sottile, ma devastante, riguarda il talento. Già oggi le menti più brillanti abbandonano l’accademia per stipendi a sei zeri nelle big tech, ma se le università non hanno fondi per formazione e ricerca, il flusso diventerà un’emorragia.
Le università non sono un orpello del sistema, sono l’infrastruttura invisibile che nutre le aziende tecnologiche. Senza laureati formati in ambienti di ricerca avanzata, anche i colossi della Silicon Valley si ritroveranno con un bacino di talenti sempre più ristretto.
Trump e i suoi strateghi sembrano dimenticare un principio basilare: la scienza è un investimento a rendimento differito, non una spesa improduttiva da tagliare a colpi di forbici. Gli effetti non saranno immediati, come ricorda Histed, ma l’erosione progressiva dell’ecosistema finirà per sterilizzare l’intero settore. Un paese che smette di finanziare la ricerca non è più leader, diventa follower, costretto a comprare innovazione dall’estero.
C’è un’ironia amara in tutto questo. Nel momento storico in cui l’intelligenza artificiale promette di ridefinire industria, finanza, difesa e sanità, la leadership americana rischia di crollare non per incapacità scientifica, ma per miopia politica. È la stessa logica che confonde la gestione di un’azienda in crisi con quella di una superpotenza tecnologica: tagliare costi oggi per mostrare bilanci in ordine, ignorando che domani la perdita sarà incalcolabile.
Il paradosso finale è che lo slogan “Make America Great Again” potrebbe tradursi in “Make China Lead AI”, con Pechino pronta a raccogliere i frutti dell’autosabotaggio americano. Perché il vero rischio non è solo perdere terreno in una competizione simbolica, ma consegnare a potenze rivali il vantaggio strategico in quello che sarà il cuore pulsante dell’economia e della geopolitica dei prossimi decenni. Chi taglia la scienza, taglia il futuro. E gli Stati Uniti stanno già cominciando a sanguinare.
E’ plausibile che alcuni legislatori repubblicani, preoccupati per le conseguenze nei distretti elettoralmente importanti inclusi quelli definiti “red” abbiano sollevato obiezioni, soprattutto quando i tagli rischiavano di danneggiare università e centri di ricerca locali.
Diversi senatori Repubblicani, in particolare da stati conservatori, hanno espresso perplessità sugli effetti negativi dei tagli sul loro territorio. Ad esempio Sen. Bill Cassidy (Louisiana) ha sostenuto che “Louisiana will suffer from these cuts” un richiamo chiaro alle ripercussioni locali.
La questione dei tagli alle spese indirette per la ricerca (come quelle dell’NIH, limitate al 15 %) riguarda state “red” che dipendono da queste risorse. Un analysis di Forbes ha stimato che dieci stati repubblicani eleggano istituzioni accademiche che rischierebbero di perdere oltre 1 miliardo di dollari. Anche altri report confermano che gruppi di governo e università in stati rossi hanno espresso forte preoccupazione, sebbene molti procuratori generali repubblicani abbiano evitato di partecipare ai procedimenti legali contro l’amministrazione.