Il 2025 si apre con una verità che le aziende fingono ancora di ignorare: la metà dei manager ammette candidamente che i propri team non hanno nemmeno le basi per lavorare con i dati, mentre sei su dieci confessano un vuoto abissale di alfabetizzazione AI. Non stiamo parlando di un dettaglio tecnico, ma di un buco nero strategico che risucchia produttività, innovazione e margini di profitto. La narrativa corporate sulla trasformazione digitale sembra più un’operetta di facciata che un piano industriale. Il paradosso? Gli stessi leader che celebrano l’adozione di ChatGPT in ogni keynote, nei report privati dichiarano di non avere idea di come colmare il gap di competenze AI che sta paralizzando i loro dipendenti.

Chiariamo subito il punto. L’alfabetizzazione AI non è saper giocare con i prompt di un chatbot per generare tre righe di marketing in stile LinkedIn. È comprendere bias, limiti, rischi etici e capacità reali dei modelli. È riconoscere quando i dati sono sporchi, quando la correlazione è spacciata per causalità, e quando l’algoritmo ti regala una decisione tossica mascherata da insight. Oggi il 77% dei leader considera “sapere cos’è l’AI” un requisito fondamentale, eppure solo una minoranza ha strutturato programmi seri di formazione. Nel frattempo, la produttività promessa dai vendor di tecnologia si riduce a un gioco di specchi: sì, l’84% dei dirigenti ammette che l’AI ha reso i team più veloci, ma quasi un terzo denuncia anche un aumento di falsità, bias e allucinazioni nei risultati. Benvenuti nel capitalismo delle scorciatoie.

Il cuore del problema è che continuiamo a trattare dati e intelligenza artificiale come se fossero due mondi separati. Invece, senza competenze digitali di base, l’alfabetizzazione AI diventa poco più che magia nera. L’illusione del prompt perfetto nasconde la realtà: senza capire cosa sia un dataset sbilanciato, o come interpretare una regressione, stai solo vestendo un manichino con l’abito dell’innovazione. Il report 2025 è spietato: quattro delle sette competenze più richieste oggi sono proprio nell’asse dati-AI, ma la formazione resta episodica, incoerente, spesso relegata a corsi video che nessuno guarda.

Eppure il mercato ha già emesso la sua sentenza. Il 79% dei leader è disposto a pagare salari più alti a chi padroneggia i dati, e il 71% riconosce un premium per chi possiede alfabetizzazione AI. In alcuni casi parliamo di stipendi maggiorati del 40%. Non è più un nice-to-have, è il nuovo metro di selezione. Inutile lamentarsi del brain drain se non si offre ai dipendenti un ecosistema per crescere: i talenti migliori non restano dove l’AI è trattata come un giocattolo da laboratorio, ma scelgono chi investe davvero in cultura e competenze.

Si dirà che il problema è il budget. Un terzo dei leader cita mancanza di fondi per la formazione. Peccato che gli stessi CEO non abbiano esitato a firmare assegni miliardari per piattaforme generative, spesso implementate senza alcuna strategia di adozione. Qui emerge l’ipocrisia sistemica: spendere per l’hype, risparmiare sulla cultura. Una scelta che distrugge valore a lungo termine. Non sorprende che il 40% dei dirigenti lamenti decisioni sbagliate e il 39% perda produttività a causa della mancanza di competenze digitali di base. Un’azienda senza alfabetizzazione AI è una Ferrari senza benzina, utile solo come soprammobile da esibire agli investitori.

C’è poi la questione più scomoda. L’AI non è solo un acceleratore di processi, ma un moltiplicatore di rischi. Dal bias nei dataset alla disinformazione generata, fino alla questione legale sulla proprietà intellettuale, ignorare l’alfabetizzazione AI equivale a guidare bendati su un’autostrada a 200 km/h. I leader lo sanno, tanto che il 74% invoca programmi di Responsible AI, ma tra dichiarazioni e realtà c’è un abisso. Se non si trasforma la retorica in prassi, l’AI diventerà il più grande scandalo industriale del decennio.

La parte ironica? I team tecnici, ovvero IT, R&D e analytics, sono già dentro fino al collo, usano quotidianamente ChatGPT, Copilot e Gemini. Ma i reparti che più avrebbero da guadagnare restano ai margini: marketing, finance, operations. La ragione è semplice: mancano i casi d’uso concreti e manca soprattutto la formazione per trasformare hype in valore. Si continua a parlare di AI come di una bacchetta magica, ma i veri numeri raccontano una realtà meno glamour: senza alfabetizzazione diffusa, l’AI resta un giocattolo elitario, confinato a pochi smanettoni.

La partita vera è appena iniziata. La prossima ondata di licenziamenti non colpirà chi non sa programmare in Python, ma chi non sa distinguere un output generativo utile da uno fallace. Nel report, il 59% dei leader ammette che chi possiede alfabetizzazione AI sarà meno esposto al rischio di automazione. Tradotto: se non impari oggi a usare l’AI con criterio, domani sarai il primo sostituibile.

In conclusione, il 2025 ci restituisce un’immagine crudele: una classe dirigente consapevole della centralità delle competenze digitali ma incapace di colmare davvero il gap di competenze AI. Il risultato è un’industria che corre con il freno a mano tirato, un’innovazione zoppa che celebra l’adozione ma ignora la cultura. E mentre i report parlano di “rivoluzione industriale”, la verità è che la maggior parte delle aziende si comporta come un turista in un museo interattivo: gioca con i bot, fa selfie davanti ai dashboard, ma non capisce cosa sta guardando.