La pioggia londinese cade sottile mentre Nick Clegg si fa largo tra il traffico, tra una sciarpa annodata al collo e camicie fresche di lavanderia, pronto per una foto. Ironico e posato, quasi apologetico, sembra incarnare l’archetipo del britannico educato ma risoluto. Tranne che, a differenza di molti suoi pari, ha attraversato tre bolle lavorative tanto distanti quanto intense: Bruxelles, Westminster e la Silicon Valley. Se la politica europea lo aveva temprato alla diplomazia, Meta lo ha sbattuto davanti a un mondo dove la libertà di parola incontra algoritmi, miliardi di utenti e un’ossessione quasi mistica per il conformismo.

Nick Clegg non è uno che si lascia impressionare facilmente. Dopo la deflagrazione dei Lib Dem in Gran Bretagna, dopo l’ascesa di populismi e Brexit, dopo un’esperienza di governo che definire complessa è un eufemismo, il suo approdo in Silicon Valley sembrava un tuffo nel surreale. Meta, gigante del social networking globale, con Facebook, Instagram e WhatsApp, non è certo un ufficio da vacanzieri californiani. Qui la cultura tech si presenta come una parata di machismo e autocelebrazione: Elon Musk che si bea di videogiochi spaziali mentre discute di AI, i podcast che inneggiano a un’aggressività corporativa, e tutti vestiti uguali, guidano le stesse auto, ascoltano le stesse playlist. Herd-like behavior, lo chiama Clegg. Una specie di orda di privilegiati che confonde la fortuna con l’oppressione.

Eppure, nonostante il “cloying conformity” della Valley, Clegg vede il lato positivo del social. Non per cieca ingenuità, ma per convinzione liberale radicata: miliardi di persone, spesso lontane dai radar dei media occidentali, hanno ora una voce. L’argomento è semplice, ma disturbante per chi ama la narrativa del male tecnologico: social media e libertà di espressione non sono intrinsecamente nocivi. Non hanno inventato l’odio, né hanno creato la rabbia politica. Sono uno specchio potente, e talvolta deformante, di tensioni già presenti.

Clegg non ignora i rischi. L’uso di Instagram tra adolescenti, l’ansia da confronto, i fenomeni di polarizzazione politica: tutto reale, tutto documentato. Ma la soluzione non è affidare a tech bros o algoritmi la censura morale della società. Parla di leggi e parli parlamentari, di limiti di età verificati dagli app store, di feed separati per bambini. Insomma, responsabilità democratica, non paternalismo digitale.

L’uscita da Meta non è fuga né protesta plateale. È un segnale di disaccordo su linee rosse: la politizzazione diretta della piattaforma, la cessione della moderazione a sistemi utopici tipo Wikipedia, le misure post-pandemia considerate “overdone”. Clegg critica il machismo narcisistico di Musk e compagni senza puntare il dito contro individui specifici: la critica è culturale, sistemica, quasi antropologica. Privilegio e vittimismo convivono in un mix che definisce “profondamente repellente”.

In Silicon Valley, l’idea di riflettere sulla propria fortuna è aliena. Tutto diventa merito personale e battaglia epica per l’attenzione globale. Clegg, con la sua esperienza di governante e diplomatico, percepisce la dissonanza cognitiva: persone immensamente potenti che si sentono oppresse, piattaforme che assumono responsabilità pubbliche senza essere elettive. Qui si misura la fragilità della democrazia digitale: decisioni private che influenzano la sfera pubblica globale. L’esempio lampante rimane la sospensione di Trump durante i disordini al Campidoglio: decisione legittima ma carica di implicazioni politiche mai viste prima.

Nick Clegg non è nostalgico né ingenuo. Riconosce la complessità dei flussi di informazione, la virulenza della polarizzazione, la responsabilità dei media tradizionali più dei social stessi. Rupert Murdoch e Paul Dacre hanno manovrato opinioni e voti senza algoritmo, eppure nessuno grida allo scandalo sistemico con la stessa intensità riservata a Meta. L’ironia è evidente: la piattaforma più potente del mondo viene accusata di manipolare l’umanità, ma i veri dominatori dei media vecchio stile rimangono invisibili agli occhi della critica mainstream.

Clegg insiste che social media e libertà di espressione non sono un ossimoro. Le piattaforme hanno trasformato la comunicazione globale, democratizzato il discorso, consentito solidarietà e conoscenza. La tecnologia non è neutra, ma la responsabilità di limitarla non può essere appaltata a privati senza trasparenza. La Silicon Valley ha bisogno di guida etica, non di guru del machismo digitale.

Infine, c’è la dimensione personale: moglie politica e figli cresciuti tra California e Londra, esperienze formative che ricordano a Clegg il privilegio come dovere. La prospettiva di un padre liberale, ex politico e insider tech, offre un’analisi equilibrata ma non indulgente: il mondo digitale è un’arena di potere, cultura, etica e follia. E chi non capisce questo intreccio rischia di confondere tecnologia con destino, social media con morale, conformismo con progresso.

Nick Clegg Meta rimane quindi il simbolo di un approccio pragmatico, critico e allo stesso tempo visionario: un liberale tra politici e tech bros, un osservatore che sa riconoscere i limiti umani dentro un ecosistema globale, un innovatore forzatamente immerso in conformismo ma deciso a preservare un principio basilare: libertà di espressione e responsabilità democratica devono convivere, perché senza entrambe la tecnologia diventa uno strumento di oppressione, non di liberazione.

Bellissimo Editoriale su The Guardian: https://www.theguardian.com/politics/2025/aug/23/facebook-nick-clegg-tech-bros-trump-leaving-silicon-valley?utm_campaign=article_email&utm_content=article-15651&utm_medium=email&utm_source=sg