Il sogno della superintelligenza artificiale è diventato l’ossessione di Mark Zuckerberg. Non bastava dominare i social network, ora Meta vuole giocare nella partita più pericolosa e affollata del pianeta: quella della superintelligenza. Non un’intelligenza artificiale generativa qualsiasi, ma la promessa vaga e seducente di una “personal superintelligence” che dovrebbe rendere superfluo ogni altro strumento digitale. Un progetto che già suona come una rivoluzione industriale, con l’aggiunta dell’ego ipertrofico di una delle figure più polarizzanti della Silicon Valley. La realtà però, come spesso accade quando i visionari passano dal palco al laboratorio, ha un senso dell’umorismo più pungente. A meno di due mesi dal lancio del Meta Superintelligence Labs, fiore all’occhiello della nuova era di Zuckerberg, iniziano le prime crepe: un esodo precoce di talenti che sembra il trailer di un film che rischia di finire male.
Il punto non è il numero degli abbandoni, che Meta si è affrettata a definire “normale attrito” come se fosse routine per un team appena nato. Il punto è chi se ne va. Ricercatori e ingegneri che avevano scritto il codice della storia interna di Meta, veterani abituati a sopravvivere al caos di Menlo Park, figure che conoscevano l’infrastruttura AI dell’azienda come fosse la propria lingua madre. Ma anche nomi più freschi, reclutati a colpi di pacchetti retributivi dal valore indecente, convinti dalla narrazione del CEO di essere parte di una nuova Manhattan Project digitale. Se scappano anche loro, forse il problema non è “normale”. È strategico.
Meta gioca a fare l’underdog, ma il tempo non è dalla sua parte. OpenAI ha già imposto l’immaginario collettivo con ChatGPT, Google DeepMind continua a sfornare paper che dettano le regole del settore, Anthropic cavalca la narrativa della sicurezza e della ricerca etica. Meta, per ora, ha solo il capitale, la forza bruta dei data center e la narrativa del suo fondatore. Non basta. Il mercato della superintelligenza non perdona esitazioni e non premia chi rincorre. L’unico vantaggio di Zuckerberg è il suo coraggio quasi incosciente, la volontà di investire miliardi senza esitare, comprando tempo e risorse per compensare un ritardo che cresce ogni giorno.
Ma la cultura aziendale non si costruisce con i bonus, e la leadership nel settore non si conquista con le stock options. È un equilibrio delicato tra genio scientifico e visione a lungo termine. Quando i veterani iniziano a lasciare il campo, significa che la fiducia interna vacilla. E senza fiducia non si trattiene il talento. Una superintelligenza senza super-ingegneri è una chimera, non un prodotto. Gli investitori lo sanno, i partner lo percepiscono, i candidati lo fiutano. Basta leggere le dichiarazioni ufficiali per capire che la narrativa traballa: minimizzare le uscite con la formula della “normale attrition” è la stessa retorica con cui si giustificano i licenziamenti di massa durante le crisi cicliche. Peccato che qui la crisi sia embrionale.
Il vero rischio per Meta non è perdere otto o dieci cervelli. È perdere il controllo della percezione. Per un colosso che vive di immagine, la fiducia dei mercati e la capacità di attrarre i migliori è più importante della velocità di calcolo dei suoi server. Se la storia che si racconta all’esterno smette di coincidere con la storia che si vive all’interno, allora il castello si incrina. E in questo settore, quando si perde un mese, si perdono anni.
La sfida della superintelligenza non è tecnologica soltanto, è antropologica e organizzativa. Bisogna orchestrare team che credano davvero di poter costruire qualcosa che va oltre il già visto. Meta, invece, rischia di diventare la palestra dei talenti che scaldano i muscoli prima di andare a giocare le partite serie altrove. Zuckerberg può continuare a scrivere post visionari, ma la verità è che il suo laboratorio è ancora un cantiere. La fuga di talenti non è un incidente: è un segnale. E nella corsa alla superintelligenza, i segnali contano quanto i modelli.