Google ora ti permette di condividere i tuoi gemini gems

La notizia che Google abbia deciso di aprire la condivisione dei Gems, i suoi assistenti AI personalizzati, sembra a prima vista un dettaglio di poco conto, quasi un aggiornamento di servizio da inserire a margine. In realtà è un segnale chiaro della direzione strategica che Google vuole imprimere al suo ecosistema Gemini: trasformare questi assistenti da esperimenti individuali a risorse condivise, standardizzate e potenzialmente virali. La mossa è sottile ma incisiva, perché elimina quella barriera di ridondanza che obbligava più persone a ricreare la stessa logica in loop. Ora invece basta un click, come su Google Drive, e il Gem passa di mano, con tanto di permessi per visualizzare, usare o addirittura modificare.

Il punto non è la condivisione in sé, ma il fatto che Google stia costruendo una nuova grammatica di collaborazione attorno all’AI. Se fino a ieri creare un Gem significava costruirsi un piccolo alleato personale, ora l’atto di condividerlo lo rende oggetto di cultura collettiva. In un’azienda, per esempio, invece di avere dieci dipendenti che si inventano ciascuno il proprio assistente per la reportistica, basta che un manager crei il Gem definitivo e lo distribuisca. Risultato: meno caos, più coerenza. Ma anche più potere concentrato in chi definisce le istruzioni di base, perché chi scrive le regole di un Gem, di fatto, scrive le regole del lavoro digitale di tutti gli altri.

Il parallelo con Google Drive non è casuale. La filosofia è identica: file, documenti e ora anche intelligenze artificiali diventano asset condivisi, con un ciclo di vita regolato dai permessi. È qui che si nasconde il colpo da maestro. Perché con questa mossa Google non sta solo migliorando l’usabilità, sta in realtà estendendo il dominio del suo modello collaborativo dall’informazione statica all’intelligenza attiva. Un documento su Drive rimane fermo finché qualcuno lo apre e lo modifica. Un Gem invece agisce, produce, suggerisce, decide. Condividere un Gem significa condividere una logica operativa, un flusso mentale artificiale che può replicarsi in più contesti. È la democratizzazione della prassi algoritmica.

Chi pensa che tutto ciò sia utile solo per i progetti di gruppo non ha colto la portata del fenomeno. La possibilità di condividere Gems spalanca scenari di viralità applicativa che ricordano i primi anni delle app su smartphone. C’è chi costruirà Gems per organizzare viaggi, chi per pianificare diete, chi per scrivere racconti in collaborazione. E ci sarà sempre qualcuno che prenderà un Gem, lo modificherà e lo rilancerà in una versione più potente. Il marketplace non è ancora formalizzato, ma la dinamica è già quella di un ecosistema. Non stiamo parlando di chatbots qualsiasi, ma di micro-software comportamentali che si clonano e mutano attraverso le mani degli utenti.

Dal punto di vista aziendale il fascino è ancora più forte. Per un CTO significa poter stabilire un linguaggio comune, codificato in Gems, che definisce processi, controlli, persino lo stile di scrittura interna. È come avere manuali aziendali interattivi che non si limitano a spiegare, ma eseguono. Naturalmente emergono i soliti rischi. La privacy innanzitutto, perché condividere un Gem che accede a file o dati sensibili può diventare un boomerang. Poi la governance, perché se il Gem viene modificato da più mani si rischia la deriva delle versioni. Infine la dipendenza dalla piattaforma: centralizzare le pratiche operative nei Gems significa delegare a Google non solo l’infrastruttura, ma anche il cervello digitale della tua azienda.

Chi osserva con occhio scettico dirà che tutto questo non è altro che una feature in più, ma chi conosce le dinamiche di piattaforma sa che sono proprio queste piccole aperture a costruire i veri imperi. Apple non ha creato l’iPhone per far girare app di terze parti, eppure l’App Store ha trasformato il dispositivo in un monopolio culturale. Google sta tentando una mossa simile con i Gems: oggi li condividi con i colleghi per una vacanza, domani potresti usare Gems di terzi per gestire le supply chain. La linea tra giocattolo e infrastruttura si assottiglia velocemente.

Ironia della sorte, la possibilità di condividere Gems è nata dopo mesi in cui Google li aveva relegati agli abbonati Advanced, Business ed Enterprise, come se fosse un privilegio da pagare a caro prezzo. Adesso invece vengono distribuiti in oltre 150 paesi e resi disponibili a tutti. È la classica dinamica del test elitario che diventa massa critica. Prima li fai usare ai power users, poi li democratizzi quando hai capito come funzionano davvero. È lo stesso copione della Silicon Valley, un evergreen che funziona sempre: prima esclusività, poi esplosione.

Resta una domanda cruciale. Questi Gems condivisi diventeranno davvero strumenti mainstream o finiranno come gli add-on di Google Docs, amati da pochi e ignorati dalla maggioranza? Molto dipenderà dalla capacità degli utenti di creare Gems veramente utili e dalla velocità con cui Google riuscirà a integrare funzioni sempre più sofisticate. Intanto la direzione è segnata: Google non sta più solo vendendo AI, sta vendendo logiche operative preconfezionate. In un’epoca in cui il tempo è la valuta più scarsa, il vero valore non è l’intelligenza artificiale in sé, ma l’intelligenza artificiale già pronta, immediatamente trasferibile e condivisibile come fosse un link.

Chi non coglie questa sfumatura rischia di sottovalutare la portata del cambiamento. Perché oggi condividere un Gem può sembrare un gioco, ma domani potrebbe significare condividere l’intera struttura cognitiva di un’organizzazione. Ed è a quel punto che ci accorgeremo che non stiamo solo lavorando con AI, stiamo lavorando dentro l’AI.