Kim Jong Un non ama le mezze misure, e la sua ultima dichiarazione lo dimostra: l’intelligenza artificiale è diventata “una priorità assoluta” per modernizzare le armi della Corea del Nord.
Non parliamo di chatbot che scrivono poesie, ma di droni autonomi, sistemi di sorveglianza e motori a combustibile solido per missili intercontinentali. In poche settimane, Pyongyang ha mostrato al mondo due carte decisive: test militari con droni e ricognitori basati su AI e un nuovo motore a propellente solido per vettori intercontinentali. Un messaggio chiaro a Washington, Seul e Tokyo: la Corea del Nord non è più quella dei tempi in cui il regime era deriso per i lanci falliti nel Mar del Giappone.
La Defense Intelligence Agency statunitense non nasconde la preoccupazione: oggi Pyongyang può colpire forze americane e alleati in Asia nordorientale. Che la Corea del Nord riesca a fare questo nonostante decenni di sanzioni racconta due verità. Primo, il sistema delle sanzioni è ormai un colabrodo, aggirato con la stessa efficienza con cui gli oligarchi russi trasferiscono yacht in porti sicuri. Secondo, l’AI non conosce confini: analisi di 38 North hanno documentato collaborazioni accademiche del regime con università negli Stati Uniti, in Cina e in Corea del Sud. Quando il sapere circola liberamente, persino il paese più isolato al mondo riesce a farne arsenale.
La dipendenza tecnologica di Pyongyang rimane marcata, soprattutto dalla Cina. Cloud, infrastrutture hardware e know-how per modelli di intelligenza artificiale non nascono nei laboratori nordcoreani ma oltreconfine, eppure questo non frena l’ambizione. Il regime usa la scienza altrui con la logica del parassita geopolitico: non serve reinventare la ruota, basta saperla rubare o copiare abbastanza in fretta.
L’elemento più inquietante è il tempismo. Mentre Kim sorride accanto a motori a combustibile solido pronti a spingere missili intercontinentali, la narrativa interna si salda attorno all’idea che l’AI sia la scorciatoia verso la parità strategica. Se Mosca fornisce davvero moduli di reattori nucleari navali, come riportato da fonti sudcoreane, e Pyongyang riesce a reverse-ingegnerizzarli, allora il sogno di una flotta di sottomarini nucleari non è più fantascienza. Gli analisti avvertono che la Corea del Nord non ha né l’acciaio ad alta resistenza né i semiconduttori per sensori subacquei avanzati, ma se la Russia decide di compensare il sostegno ricevuto in Ucraina con pacchetti tecnologici, la curva di apprendimento può diventare pericolosamente breve.
Questa alleanza militare tra due stati paria ricorda più una joint venture disperata che un’alleanza ideologica. Pyongyang fornisce manodopera e munizioni, Mosca restituisce tecnologia e know-how proibito. È il baratto della nuova Guerra Fredda: soldati in cambio di reattori, proiettili in cambio di moduli navali. Non stupisce che la sorella di Kim, Kim Yo-jong, alzi i toni contro le esercitazioni congiunte di Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, accusandole di essere prove generali per una guerra nucleare. Il messaggio è calibrato per massimizzare la paranoia regionale e per giustificare ulteriori test, magari già pianificati per coincidere con anniversari del regime.
A Seul, intanto, il paradosso è evidente: la Corea del Sud costruisce sottomarini diesel-elettrici da 3.000 tonnellate e testa SLBM domestici, mentre il Nord arranca con scafi modificati da rottami sovietici. Eppure l’asimmetria tecnologica non basta a tranquillizzare, perché la deterrenza nordcoreana non si misura sulla qualità assoluta, ma sulla capacità di minacciare rappresaglie imprevedibili. Un drone con AI rudimentale ma prodotto in massa può destabilizzare un’intera regione quasi quanto un sottomarino d’élite.
Chi immagina che la Corea del Nord rimanga indietro per sempre non ha studiato abbastanza la logica del regime: l’obiettivo non è superare gli Stati Uniti sul piano qualitativo, ma rendere proibitivamente rischioso un attacco preventivo. In questo senso l’intelligenza artificiale è l’arma perfetta: moltiplica l’efficacia di sistemi già obsoleti, li rende più autonomi, più difficili da neutralizzare e più economici da replicare. È la stessa logica che ha reso i droni turchi Bayraktar una minaccia sproporzionata rispetto al loro costo.
Che fare di fronte a uno scenario del genere? Continuare a illudersi che l’AI sia neutrale sarebbe irresponsabile. Quando un regime che non ha problemi a sacrificare la sua popolazione decide di trasformare l’intelligenza artificiale in arsenale, la questione non è più tecnologica ma politica. La comunità internazionale, così abile a produrre comunicati indignati, non ha ancora elaborato un linguaggio comune per affrontare la militarizzazione dell’AI. Si parla di “AI safety” a San Francisco, mentre a Pyongyang si parla di “AI weaponization”.
Il rischio maggiore non è un singolo test missilistico o un sottomarino arrangiato con pezzi di ricambio, ma la convergenza di due tendenze: un regime disposto a tutto pur di mantenere la sopravvivenza dinastica e una tecnologia che abbassa i costi di ingresso per nuove capacità militari. Kim non ha bisogno di costruire la Silicon Valley del Pacifico, gli basta acquistare GPU sul mercato nero e convincere qualche scienziato straniero a pubblicare paper accessibili online.
Questa è la vera minaccia strategica: un regime isolato che usa l’apertura scientifica del mondo libero per rafforzare la propria chiusura militare. In un certo senso, è il più grande fallimento dell’idea che la condivisione del sapere porti automaticamente alla pace. Pyongyang ci ricorda che il sapere condiviso può essere piegato, distorto e trasformato in arma. E lo fa con il cinismo glaciale di chi sa che l’unico vero obiettivo non è innovare, ma sopravvivere abbastanza a lungo da rendere la deterrenza credibile.