Donald Trump ha deciso che i semiconduttori non possono più arrivare a fiumi dalle fabbriche di Taiwan, Corea o Cina, senza che l’America si faccia almeno il favore di produrne altrettanti in casa propria. È la nuova trovata di una politica commerciale che assomiglia più a una roulette russa con supply chain globali che a un piano industriale coerente. La formula è tanto semplice quanto brutale: per ogni chip importato, devi produrne uno negli Stati Uniti. Se non ci riesci, paghi una tariffa che rischia di far sembrare il già caotico regime di dazi una partita a Tetris giocata a occhi chiusi.
La logica dichiarata è la solita: sicurezza nazionale. Se i chip sono il petrolio del XXI secolo, allora possederne la filiera diventa una questione di sopravvivenza politica oltre che economica. Eppure, come sempre, la retorica del sovranismo tecnologico si schianta contro i numeri e la realtà. Oggi produrre un wafer in Arizona costa molto più che farlo a Tainan, e non è certo il tweet di un presidente o un pacchetto di tariffe punitive a cambiare l’economia di scala di un settore che si misura in miliardi di dollari e in anni di ricerca.
Il cuore della questione è che la globalizzazione non si disfa a colpi di tariffa. Le stesse aziende americane che Trump vuole “proteggere” hanno costruito supply chain raffinatissime proprio per sfruttare le aree del mondo dove produrre è più conveniente. Apple, ad esempio, può anche ricevere una pacca sulla spalla per i suoi investimenti a Austin, ma resta vincolata a una catena di montaggio che attraversa oceani e che nessun piano autarchico può sostituire in tempi brevi. Si può minacciare Cook quanto si vuole, ma nessuno si sogna seriamente di vedere un iPhone “Made in Ohio” dal design alla produzione.
Questa politica dei semiconduttori, presentata come un atto di coraggio, rischia di trasformarsi nell’ennesima tassa occulta sull’innovazione. Le aziende dovrebbero rincorrere un rapporto 1:1 tra chip domestici e chip importati, un esercizio contabile degno di Kafka. Immaginate la scena: i colossi tecnologici costretti a ricostruire la genealogia di ogni microprocessore infilato dentro un computer portatile assemblato in Vietnam, con l’ansia di capire se la quota di produzione americana è sufficiente a evitare la mannaia dei dazi. Un incubo burocratico che farebbe felici solo consulenti e avvocati specializzati in commercio internazionale.
Non è un caso che i beneficiari potenziali di questa trovata siano i pochi player che stanno già investendo pesantemente negli Stati Uniti. Micron, GlobalFoundries e perfino Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, che sta costruendo impianti in Arizona, si troverebbero improvvisamente con un’arma negoziale in più nei confronti dei clienti. È una forma di protezionismo mascherato da incentivo, che sposta il costo sulle spalle delle aziende a valle, le stesse che producono smartphone, server, automobili.
Chi invoca il ritorno alla manifattura americana dimentica volutamente la dimensione geopolitica. Taiwan non è solo un hub produttivo, è una polveriera politica a 80 miglia dalla Cina. Da qui l’ossessione di Washington di ridurre la dipendenza da un’isola che potrebbe trovarsi, in caso di conflitto, tagliata fuori dal mondo. Ma accelerare l’autonomia con tariffe punitive equivale a mettere la carrozza davanti ai cavalli. L’America ha già messo sul tavolo decine di miliardi con il Chips Act, eppure le aziende si lamentano che i clienti non vogliono pagare il premium price del “Made in USA”. Aggiungere un meccanismo di dazi non cancella questo problema, lo amplifica.
Chi lavora davvero nel settore dei semiconduttori sa che non si tratta di accendere un interruttore. Costruire una fabbrica richiede anni, qualificare la produzione è un processo lento e costoso, convincere i clienti a fidarsi di un nuovo sito produttivo è un percorso tortuoso. E mentre l’America sogna di riprendersi la leadership persa, la Corea del Sud e Taiwan continuano a macinare innovazione, accumulando know-how che non si compra con un decreto presidenziale.
Il rischio, naturalmente, è che questo piano finisca per peggiorare proprio quella dipendenza che vuole eliminare. Se i costi aumentano e la burocrazia soffoca, molte aziende potrebbero semplicemente ridurre la loro presenza sul mercato americano, privilegiando regioni dove la politica non si diverte a giocare al piccolo ingegnere industriale. Sarebbe un colpo mortale non solo per i consumatori, che vedrebbero lievitare i prezzi dei dispositivi, ma anche per l’ecosistema dell’innovazione, che ha bisogno di apertura e velocità più che di recinti.
Trump ama raccontare di essere l’uomo che sa trattare con i giganti del business. È stato pronto a lodare Tim Cook dopo averlo criticato, pronto a sbandierare miliardi di investimenti come trofei personali. Ma il rapporto tra politica e tecnologia non si misura in selfie alla Casa Bianca. Si misura nella capacità di creare un ambiente competitivo, di lungo periodo, che stimoli innovazione e riduca rischi sistemici. E un sistema di quote e dazi travestito da piano industriale assomiglia più a un meccanismo di ricatto che a una strategia.
Il paradosso finale è che questa battaglia sui chip non riguarda solo la manifattura. Riguarda l’idea stessa di globalizzazione digitale. Se i semiconduttori diventano merce di scambio politico, allora tutto l’edificio della tecnologia come bene universale rischia di crollare sotto i colpi di un nazionalismo miope. L’illusione dell’autarchia digitale affascina gli elettori in cerca di slogan facili, ma chi conosce davvero il settore sa che non si vince la guerra dei semiconduttori con i dazi. Si vince con ricerca, talento e cooperazione globale, tre parole che la politica americana sembra ricordare solo quando conviene alla prossima campagna elettorale.