Nvidia non compra aziende, le divora. Jensen Huang, con il suo giubbotto di pelle ormai diventato un simbolo quasi religioso della Silicon Valley, ha trascorso settembre a scrivere assegni come se il denaro fosse un concetto obsoleto. Nel giro di poche settimane ha impegnato oltre 13 miliardi di dollari, distribuendo acquisizioni, quote strategiche e investimenti con la stessa leggerezza con cui un adolescente scorre TikTok. Non è filantropia e nemmeno la solita espansione aggressiva che ci si aspetterebbe da un colosso della tecnologia. È l’ennesima dimostrazione che la parola “frenare” non esiste nel vocabolario di chi guida Nvidia, e soprattutto che la corsa al dominio nei chip AI non ammette esitazioni.

Il contratto con CoreWeave sembra un capolavoro di ingordigia preventiva. Pagare fino a 6,3 miliardi di dollari per accaparrarsi GPU che, tecnicamente, non sono nemmeno ancora sul mercato, significa blindare la filiera prima che qualcun altro possa anche solo pensare di alzare la mano. Nvidia non si limita a fornire silicio, compra il diritto di negarlo ai concorrenti. In un settore in cui ogni microsecondo di calcolo conta, è come decidere di possedere le chiavi dell’unico pozzo in un deserto sempre più affollato. La mossa è spietata, certo, ma perfettamente in linea con la mentalità Huang: se non puoi batterli, impedisci loro di giocare.

Chi pensava che il resto del mese fosse solo contorno ha dovuto ricredersi. Settantocento milioni di dollari investiti in Nscale, startup britannica di data center, non sono un capriccio geografico. È un messaggio molto chiaro all’Europa, che vorrebbe emanciparsi dalla dipendenza tecnologica americana: “Pensavate di costruire data center sovrani? Bene, vi compriamo la sovranità a rate”. In parallelo, il blitz su Enfabrica, startup di networking, ha una logica chirurgica. Non basta avere le GPU più potenti al mondo se il traffico dati resta ingolfato in autostrade digitali costruite vent’anni fa. Nvidia ha quindi preferito pagare oltre 900 milioni per inglobare direttamente le competenze e le persone in grado di ridisegnare le fondamenta delle interconnessioni. Huang non vuole solo vendere hardware, vuole riscrivere il manuale d’istruzioni di internet.

Poi c’è il colpo di teatro: 5 miliardi per il 4% di Intel, un ex gigante che oggi arranca come un pugile ubriaco al decimo round. La logica, però, è meno sentimentale di quanto sembri. Si chiama accesso alle fabbriche, alle competenze produttive, a un know-how che Nvidia non possiede in casa. Intel può anche sembrare un Titanic in affondamento, ma per Huang rappresenta un cantiere navale galleggiante. Entrare con una quota non significa scommettere sulla rinascita di Santa Clara, ma comprarsi un posto privilegiato a tavola mentre si negoziano le regole del nuovo mercato dei chip AI. È un patto con il diavolo mascherato da investimento.

C’è chi potrebbe vedere in questa sequenza di mosse la prova di un eccesso di fiducia, forse persino di arroganza. In realtà è puro calcolo geopolitico. La corsa all’intelligenza artificiale non è più una gara di innovazione, ma una guerra di scorte. Chi controlla i chip controlla la narrativa economica globale. Nvidia lo ha capito meglio di tutti, mentre i governi balbettano di regolamentazioni e le Big Tech cercano di non rimanere a secco. Huang, invece, sta comprando il futuro a blocchi da miliardi di dollari.

Non c’è nulla di romantico in tutto questo. Nvidia non investe per migliorare il mondo, investe per garantire che ogni startup, ogni governo e ogni colosso cloud non abbia altra scelta che bussare alla sua porta. È la versione aggiornata del cartello del petrolio, ma al posto dei barili ci sono GPU, chip AI e data center. “L’oro nero del XXI secolo è il silicio”, recita un mantra che ormai suona come una profezia auto-avverata. E se il giubbotto di pelle di Huang diventerà il nuovo uniforme dei conquistatori digitali, sarà solo perché i vincitori scrivono la storia, mentre i perdenti fanno la fila per un cluster di H100.

Il dettaglio più ironico è che Nvidia, pur essendo la creatrice della scarsità artificiale di chip AI, ha costruito la propria immagine come abilitatrice dell’innovazione globale. In realtà, più che abilitare, sta monopolizzando. Ogni dollaro speso a settembre non è stato un investimento, ma un’assicurazione contro la concorrenza. Il mercato applaude, le startup tremano, i governi prendono appunti con l’ansia di chi sa di non avere abbastanza potere contrattuale. È il capitalismo nella sua forma più pura: se esiste una finestra di opportunità, Huang la compra, la chiude e ci appende sopra un cartello con scritto “Proprietà privata di Nvidia”.

Chi ancora dubita che la storia recente sia una bolla dovrebbe guardare a questi numeri e chiedersi: quanti mesi di shopping come questo servono prima che anche Nvidia diventi troppo grande per fallire? La risposta, forse, non interessa nemmeno a Huang. Perché mentre noi ci interroghiamo sulla sostenibilità di questa fame insaziabile, lui ha già ordinato il prossimo carrello pieno di aziende, tecnologie e risorse. Ed è molto probabile che quando l’economia globale si accorgerà di essere ostaggio del silicio Nvidia, sarà già troppo tardi.