Immaginate la scena: 800 generali, ammiragli e ufficiali di alto rango costretti a un raduno convocato all’improvviso a Quantico, in Virginia, quartier generale simbolico della potenza militare americana. Sul palco, Pete Hegseth, ex conduttore televisivo e ora improvvisato “segretario alla guerra”, un titolo che non esiste ma che lui ostenta con la sicurezza di chi confonde la propaganda con la dottrina. Quarantacinque minuti di discorso, slogan compreso, quel “FAFO” che nel gergo goliardico dei marines significa fondamentalmente “provaci e vedrai”. Un linguaggio più adatto a una t-shirt da palestra che a un’agenda strategica del Pentagono. Non sorprende che la platea abbia reagito con imbarazzo, un silenzio glaciale interrotto solo da qualche sorriso teso, mentre le telecamere cercavano invano un applauso spontaneo.
Qui non si tratta di stile personale o di comunicazione diretta. Si tratta del rischio di politicizzare una delle poche istituzioni americane che ancora pretende neutralità. Gli ufficiali riuniti a Quantico sanno bene che ogni parola pubblica di un segretario alla Difesa pesa come una testata nucleare sul piano strategico. Sanno che le minacce gridate non servono a dissuadere i rivali, ma a confondere alleati e a destabilizzare l’equilibrio civile-militare che negli Stati Uniti è sempre stato un pilastro. Non è un caso che, a fine discorso, nessuno abbia osato trasformare lo slogan in un coro. Quel silenzio era un atto politico, un rigetto implicito. E chi ha orecchie fini l’ha colto chiaramente.
Il problema non è l’uso di un linguaggio da bar, è l’effetto di normalizzazione che produce. Se il Pentagono diventa il palco per uno show televisivo, allora il confine tra forza armata e propaganda politica evapora. Lo sanno bene gli avversari di Washington, che vedono in questi episodi un segnale di disordine interno più che di potenza esterna. Lo sanno bene anche gli alleati, sempre più preoccupati da un’America che sembra oscillare tra serietà istituzionale e teatrino da campagna elettorale. Chi lavora nei corridoi della NATO si domanda cosa significhi dover interpretare minacce ufficiali pronunciate con il tono di un comico di provincia.
L’episodio di Quantico rivela quanto fragile sia la linea che separa la leadership militare dalla spettacolarizzazione politica. I critici interni parlano apertamente di erosione delle norme civili-militari, e non è un tecnicismo. La supervisione civile delle forze armate è ciò che distingue una democrazia consolidata da uno Stato autoritario. Portare 800 ufficiali in uniforme ad ascoltare un discorso basato su uno slogan volgare e su promesse di forza bruta non è un atto di motivazione, è un atto di appropriazione simbolica. È la fotografia di un Pentagono trasformato in platea di consenso. Non è difficile immaginare quanto poco gradita sia stata la performance tra generali che hanno costruito la propria carriera sulla disciplina e sulla sobrietà strategica.
Il cuore della questione non è neanche militare, è comunicativo. In un mondo dove ogni frase viene immediatamente ripresa, rilanciata e reinterpretata, la retorica da FAFO non resta confinata a un hangar di Quantico. Diventa un segnale a Pechino, a Mosca, a Teheran. Ed è un segnale ambiguo, perché da un lato promette aggressività, dall’altro tradisce goffaggine. Un avversario intelligente legge questo scarto e ci costruisce sopra propaganda, mentre un alleato si chiede se l’America sia davvero in grado di distinguere la deterrenza dalla fanfaronata. È la differenza tra un comunicato del Pentagono e un post su X: il primo plasma l’ordine internazionale, il secondo si perde nel rumore. Qui, purtroppo, il confine è saltato.
Chi ha assistito al discorso descrive la reazione come un misto di gelo e fastidio. Nessuno voleva essere ripreso mentre applaudiva, nessuno voleva associare il proprio volto a un teatro così scomposto. Per un esercito che si nutre di simboli e rituali, il non-applauso è un segnale fortissimo. È il rifiuto collettivo di accettare una cornice narrativa imposta dall’alto. È l’ennesimo esempio di come le forze armate americane stiano difendendo la propria neutralità con un’arma molto più sottile della forza: il silenzio.
Quantico, in questo senso, è diventato un palcoscenico imbarazzante. Non è solo il luogo di un discorso andato male, è la cartina di tornasole di un rischio più ampio: la spettacolarizzazione della difesa nazionale. Se il Pentagono si trasforma in una scenografia per messaggi politici, il prezzo lo paga la credibilità strategica degli Stati Uniti. Non è una questione di sensibilità, è un problema di deterrenza. Perché la deterrenza funziona solo se l’avversario percepisce razionalità e coerenza, non improvvisazione da palcoscenico.
Il fallimento di Pete Hegseth a Quantico è quindi molto più che una gaffe comunicativa. È un campanello d’allarme su come l’istituzione militare americana possa essere trascinata in una dimensione teatrale che non le appartiene. Un Pentagono che si lascia ridurre a slogan perde autorevolezza, e con essa perde anche il potere di proiettare fiducia all’estero. Il rischio, per gli Stati Uniti, non è solo quello di apparire più deboli. È quello di sembrare ridicoli, che nel gioco della potenza mondiale è un crimine ben più grave della fragilità. Perché nessun alleato si fida di un gigante goffo, e nessun nemico teme un attore che recita male.