AMD ha acceso i riflettori su sé stessa, ma lo spettacolo vero non era sul palco. Il lancio della nuova serie MI350, celebrata con il solito repertorio di slide scintillanti e testimonial di peso, ha in realtà lasciato il pubblico – e soprattutto gli investitori – con lo sguardo rivolto al futuro. E quel futuro ha un nome: MI400. Un numero, una promessa, forse una scommessa colossale per entrare finalmente nel ring di Nvidia.
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Se fosse davvero così facile costruire chip per l’intelligenza artificiale, allora perché Jensen Huang sembra uscito da un rave tech senza fine, invecchiato di dieci anni in dodici mesi ma ancora in cima alla catena alimentare dell’AI?
Parlando con l’aria stanca ma trionfante a Parigi — la città che ti fa sentire elegante anche quando parli di semiconduttori — il CEO di Nvidia ha mostrato con l’aria di chi la sa lunga che non è minimamente minacciato dal fatto che i suoi clienti più importanti, da Amazon Web Services a Microsoft fino a OpenAI, stiano tentando di fabbricare chip proprietari. Il tono? Mezzo ironico, mezzo “siete tutti i benvenuti a provarci, ma fallirete”.

Lisa Su, CEO di AMD, ha dichiarato che la domanda di inferenza AI crescerà dell’80% all’anno. Ma dietro questa previsione ottimistica si cela una realtà più complessa.
Nel 2024, AMD ha generato oltre 5 miliardi di dollari di entrate dalle sue GPU Instinct, con previsioni di crescita significativa nel segmento AI. Su ha dichiarato che la società prevede che le entrate annuali derivanti dai chip AI raggiungano “decine di miliardi di dollari nei prossimi anni”.

È curioso come il sogno dell’autosufficienza tecnologica finisca spesso per trasformarsi in una beffa amara. Liu Qingfeng, il visionario ma pragmatico chairman di iFlytek, ha ammesso senza troppi giri di parole che affidarsi ai semiconduttori prodotti in Cina continentale – in particolare l’Ascend 910B di Huawei – comporta un ritardo di tre mesi nello sviluppo dei modelli di intelligenza artificiale rispetto all’utilizzo delle ben più mature soluzioni Nvidia. Un piccolo dettaglio che però non frena la sua testardaggine: “Meglio perdere tempo che perdere l’autonomia”, sembra dire, ostinandosi a proseguire sulla strada dei chip locali, malgrado l’inevitabile gap prestazionale.

Nel cuore pulsante della provincia di Jiangsu, a Wuxi, si muove qualcosa che non fa rumore. Nessun sibilo di elettroni, solo la danza silenziosa della luce su wafer di niobato di litio. Benvenuti nel futuro fotonico della Cina, dove CHIPX – una creatura semiaccademica nata dall’ecosistema tentacolare di Shanghai Jiao Tong University – ha appena acceso la macchina del tempo. O meglio, la macchina del sorpasso.
Siamo abituati a pensare ai chip come a microforeste di silicio, una geometria di transistor che obbedisce ai limiti della fisica classica. Eppure, in questo preciso momento, la Cina ha scelto un’altra via: quella dei chip fotonici, dove le informazioni viaggiano sotto forma di luce e non di elettroni, dove la velocità di elaborazione può toccare vette esoteriche, e dove l’Occidente, complice la propria arroganza sanzionatoria, rischia di restare al palo.

Huawei, il colosso cinese delle telecomunicazioni che da anni è sotto l’occhio del ciclone geopolitico, ammette candidamente un fatto che fa tremare gli ingenui. I suoi chip Ascend, per quanto presentati come meraviglie della tecnologia, sono ancora “una generazione” dietro quelli statunitensi. Ma attenzione: non è la fine del mondo, né la resa incondizionata di Pechino alla supremazia tecnologica d’oltreoceano. Anzi, l’arte di arrangiarsi con metodi “non convenzionali” come stacking e clustering promette performance paragonabili ai giganti del settore. Una magia tutta cinese, fatta di impilamenti di chiplet brevettati che rendono il processore più compatto, più furbo, più scalabile.
Questa confessione arriva direttamente da Ren Zhengfei, il fondatore di Huawei, nel contesto di un’intervista di copertina sul People’s Daily, l’organo ufficiale del Partito Comunista. Primo a rompere il silenzio dopo il lancio di ChatGPT e la nuova ondata di sanzioni USA, Ren non si limita a una difesa d’ufficio. Non nasconde le difficoltà e riconosce che la tecnologia made in USA è “una generazione avanti”, ma rivendica con veemenza la capacità della Cina di colmare il gap con ingegnose soluzioni tecniche. E, soprattutto, sottolinea la forza di un ecosistema nazionale che ha ben altri vantaggi competitivi: centinaia di milioni di giovani, una rete elettrica robusta e una infrastruttura di telecomunicazioni che, a suo dire, è la più sviluppata al mondo.

Immaginate un cervello che non ragiona più solo in 0 e 1, ma anche in forse, chissà, probabilmente. Per decenni, l’informatica è stata una religione binaria, fondata sull’assioma del “sì o no”, “vero o falso”, “0 o 1”. Adesso, dalla Cina, arriva un’eresia. Un chip non-binario, un ibrido tra l’efficienza spietata del silicio e la mollezza stocastica della probabilità. Una via di mezzo tra il calcolo deterministico e il caos quantistico. Con buona pace di Turing, Von Neumann e – sì – del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti.
Non è una provocazione teorica. È un’applicazione industriale su larga scala. Il primo al mondo. Ed è cinese.
Dietro il colpo di teatro c’è il professor Li Hongge della Beihang University, che ha orchestrato la mossa in pieno stile go – il gioco da tavolo orientale che privilegia la strategia lenta, le mosse indirette, il controllo degli spazi vuoti. La sua arma segreta? Un sistema numerico chiamato Hybrid Stochastic Number (HSN). Un matrimonio poco ortodosso tra numeri binari e logica probabilistica. L’obiettivo? Scavalcare due ostacoli architettonici che da anni tengono in ostaggio il progresso del computing: il power wall e l’architecture wall.

Il settore più noioso dell’alta tecnologia – il software per la progettazione dei chip – si è trasformato nel protagonista indiscusso della nuova guerra fredda. E no, non è un’esagerazione giornalistica.
Quando Washington ha ordinato a Cadence, Synopsys e Siemens EDA di smettere di vendere in Cina, la notizia non ha fatto solo tremare i server di Pechino: ha acceso una miccia nella borsa di Shenzhen. Perché? Perché l’EDA, quell’oscuro acronimo che significa Electronic Design Automation, è letteralmente il software che pensa i chip, li disegna, li simula, li testa. Senza EDA non c’è chip. Senza chip non c’è AI. Senza AI non c’è dominio tecnologico. E senza dominio, in questo secolo, sei solo un gigantesco mercato di consumatori.

Pochi bit, molta guerra. Altro che microchip: qui si gioca a Risiko con le chiavi della civiltà digitale. Synopsys, colosso americano del software per il design di semiconduttori, ha appena dato un bel calcio al tavolo cinese. Un’email interna, nemmeno troppo criptica, ha ordinato lo stop immediato a vendite, servizi e nuovi ordini in Cina. Nessun dettaglio sfuggito a una comunicazione ufficiale. Nessun giro di parole. Dal 29 maggio 2025, blackout totale. Perché? Perché gli USA hanno aggiornato le “regole del gioco” e, come sempre, chi ha il pallone decide chi può giocare.

Non lo dicono ancora ufficialmente, ma la tensione è palpabile. Nvidia è finita nel mezzo di una guerra che non ha voluto combattere, ma da cui non può uscire. Il gigante dell’intelligenza artificiale, la fabbrica di chip più ambita del pianeta, ha appena fatto una mezza ammissione: il chip AI per la Cina non è pronto. Tradotto: l’America ha colpito, e Nvidia sta ancora cercando di capire dove sanguina.
Jensen Huang, CEO con la giacca di pelle e lo sguardo da filosofo californiano, lo ha detto durante l’ultima earnings call con la freddezza tipica di chi sa che ogni parola sarà sezionata da analisti, burocrati e lupi di Wall Street. “Non abbiamo nulla da annunciare al momento”, ha detto, lasciando intendere che qualcosa bolle in pentola, ma che per ora il fuoco è spento. O meglio: bloccato da Washington.

Nel teatro geopolitico dei semiconduttori, dove si combatte con wafer e transistor invece che con baionette e bandiere, Nvidia si presenta come quel personaggio improbabile che, pur zoppicando vistosamente, arriva comunque primo al traguardo. Sì, perché l’azienda guidata da Jensen Huang si è appena vista sfilare dal tavolo cinese 8 miliardi di dollari come se niente fosse, per effetto dei nuovi controlli sulle esportazioni imposti da Washington, eppure… il trimestre vola. E non vola a caso: +50% sul fatturato anno su anno, previsione a 45 miliardi. In pratica, Nvidia stampa soldi anche quando dovrebbe affogare.
Questa è la nuova aritmetica del capitalismo AI-driven: puoi perdere un intero mercato (la Cina) e continuare a macinare record su record. Il segreto? Semplice: essere l’unico spacciatore autorizzato di droga computazionale per i modelli linguistici di nuova generazione. Loro hanno gli H100, tu no. Fine della discussione.

Trump ha detto no. Il Deep State del chip ha risposto: “Ok, ma solo fino alla prossima trimestrale.”
È il genere di teatro geopolitico che solo il capitalismo terminale può offrire con così tanta grazia grottesca. Mentre la Casa Bianca chiude i rubinetti tecnologici alla Cina, Nvidia – il dio monoculare dell’AI moderno – continua a macinare utili con la naturalezza con cui un server Apache gestisce richieste: freddamente, incessantemente, incurante del contesto.
Il blocco dei chip AI verso Pechino è stato sbandierato da Trump come una mossa patriottica, un colpo di karate economico alla gola dell’intelligenza artificiale cinese. In realtà, è servito a ben poco: Nvidia ha appena pubblicato numeri talmente buoni da far arrossire persino Cupertino e Mountain View. 26 miliardi di free cash flow in un solo trimestre. Roba che nemmeno la somma di Apple e Google riesce a replicare. E mentre la Cina scompare dalla mappa delle vendite (con un buco dichiarato di 10,5 miliardi su due trimestri), gli USA e i loro alleati tecnologici si accalcano a comprare ogni singolo transistor disponibile.

La notizia, riportata con toni trionfali da metà stampa europea, è che Taiwan Semiconductor Manufacturing Company l’indiscusso Leviatano della produzione globale di chip ha deciso di piazzare il suo primo Design Centre nel cuore pulsante della Germania tecnoindustriale: Monaco di Baviera. C’è chi parla di svolta, chi di “autonomia strategica europea”, chi ancora di “rivincita contro Cina e USA”. La realtà, però, è meno poetica e molto più cinica: l’Europa sta solo comprando un biglietto in economy su un aereo che vola da anni verso l’intelligenza artificiale.
Il centro progettuale TSMC, attivo dal terzo trimestre 2025, sarà dedicato a sviluppare chip “high-density, high-performance, energy-efficient” per settori nobili come l’automotive, l’industriale, l’IoT e, ovviamente, l’AI. Ma attenzione: progettare non significa produrre, e soprattutto non significa decidere.

Il mondo delle tecnologie avanzate, dove ogni dichiarazione di un colosso come Xiaomi diventa un campo di battaglia di parole, brevetti e sogni di autonomia. L’ultimo episodio? La presunta “dipendenza” dal chip Arm nel nuovissimo XRing O1 da 3 nanometri. Leggenda metropolitana, o realtà da marketing? Xiaomi non ci sta e, con un tono che sfiora il cinismo, spazza via le illazioni con la forza di chi conosce i segreti di un mercato spietato.
Partiamo dal nocciolo: il chip XRing O1 utilizza, sì, i core Cortex-X925, A725 e A520 di Arm, ma Xiaomi tiene a precisare che non si tratta di una soluzione pronta e su misura fornita da Arm. È un po’ come dire che hai comprato un motore Ferrari, ma hai costruito da zero la carrozzeria, l’elettronica e persino il telaio. Quindi, stop alle teorie complottiste di un chip “personalizzato” da Arm: il lavoro sporco e creativo è tutto made in Xiaomi, e la società non ha badato a spese, investendo quattro anni di ricerca e sviluppo per mettere a punto un SoC che possa seriamente giocarsela con Apple, Samsung e Huawei.

Ogni epoca ha il suo Golia, e ogni Golia ha bisogno di un Davide con una fionda ben calibrata. Oggi il Golia si chiama Nvidia, l’onnipotente fornitore di GPU che domina l’intelligenza artificiale globale come un monarca assoluto. E il Davide? Beh, si chiama Huawei, che con una fionda chiamata Supernode 384 mira dritto alla fronte del monopolio siliconico a stelle e strisce.
Siamo nel cuore pulsante dell’era dell’intelligenza artificiale generativa, dove non vince il chip più potente, ma l’architettura più scalabile. Ed è qui che Huawei ha lanciato la sua controffensiva silenziosa, elegante e profondamente cinica. Non potendo più importare semiconduttori avanzati dagli Stati Uniti per via delle sanzioni, ha deciso di sovvertire il paradigma stesso dell’infrastruttura di calcolo.

Non è più una questione di prompt engineering. È la resa dei conti tra l’addestramento supervisionato e l’autodidattica brutale delle macchine. NVIDIA ha rilasciato AceReason-Nemotron, e non è un’altra versione pompata di ChatGPT o un clone open source a metà cottura. Qui siamo davanti a una nuova filosofia di intelligenza artificiale: quella che sbaglia, soffre, migliora. Un’IA che diventa ragionevole solo dopo essersi schiantata migliaia di volte contro il muro del fallimento. E no, non è una metafora: l’hanno lasciata lì, a soffrire in solitaria, ad affrontare esercizi matematici e problemi di programmazione senza nessuna babysitter supervisionata.

Ogni volta che Nvidia prova a vendere un chip in Cina, gli USA glielo strappano via come un osso al cane. Ma il cane, questa volta, torna con un osso più piccolo. È il nuovo chip AI basato su architettura Blackwell, pensato appositamente per la Cina un Frankenstein tecnologico mutilato e venduto a un prezzo “di compromesso” tra $6.500 e $8.000. Una farsa high-tech, un altro episodio nella tragicommedia della Guerra Fredda digitale che Silicon Valley e Pechino continuano a recitare a soggetto.
La keyword qui è chip AI Nvidia Cina, ma non aspettarti miracoli di potenza. Questo giocattolino una versione castrata e semplificata del celebrato H20 è l’unico modo che Nvidia ha per non scomparire del tutto da un mercato che, fino al 2022, rappresentava il 95% del suo market share locale. Oggi? Solo il 50%. E Jensen Huang, il CEO col look da rockstar del deep learning, lo ha detto chiaro: “Se continua così, regaliamo il mercato a Huawei”.

Quando il CEO di Xiaomi, Lei Jun, si alza sul palco e proclama che lo XRing O1 è “molto potente”, il mondo tecnologico sa che sta per arrivare uno di quei momenti che rimbombano nei laboratori di Cupertino e nelle camere bianche di Taiwan. Lo dice con quella sicurezza che solo chi ha bruciato miliardi di yuan può permettersi. E lo dice proprio mentre mostra un chip che, a detta dei benchmark presentati, avrebbe superato — sì, proprio superato l’A18 Pro di Apple. Hai capito, Tim?
La keyword qui è “chip Xiaomi”, le secondarie obbligate sono “XRing O1” e “processore 3nm”, il tutto incastonato in un contesto che puzza di geopolitica, siliconi e una certa vendetta orientale ben pianificata.

Quando un CEO di Silicon Valley smette di usare il linguaggio patinato da earnings call e inizia a parlare come un barista incazzato al terzo giro di bourbon, forse è il momento di ascoltare. Jensen Huang, patron di Nvidia, non è certo noto per le mezze misure, ma stavolta ha deciso di strappare direttamente il copione della diplomazia e dire le cose come stanno: i controlli sulle esportazioni di chip AI verso la Cina? Un boomerang perfetto. Un’idiozia geopolitica camuffata da strategia.

AMD, nel ruolo sempre più teatrale del protagonista che finge di non volere il potere mentre lo accarezza in silenzio, ha chiuso un’operazione che è tutto tranne che banale: ha venduto la divisione manifatturiera di ZT Systems a Sanmina (NASDAQ:SANM) per 3 miliardi di dollari. Di questi, 2,55 miliardi arrivano subito, tra contanti e azioni, mentre il restov450 milioni di earn-out dipende dai soliti “se tutto va bene” dei prossimi tre anni. Tradotto: AMD ha appena fatto il taglio chirurgico di un ramo secco, ma ha tenuto per sé il midollo.

Nel meraviglioso mondo delle “rivoluzioni da conferenza stampa”, Xiaomi ha appena sparato il suo missile più lucido: il system-on-a-chip XRing O1 da 3 nanometri. Un nome che pare uscito da una fanfiction tra Cyberpunk 2077 e un catalogo AliExpress. Annunciato con toni messianici da Lei Jun su Weibo, il nuovo SoC alimenterà gli imminenti 15S Pro e Pad 7 Ultra. Ma attenzione: dietro il linguaggio trionfalistico si nasconde una delle più sottili operazioni di comunicazione tecnologica degli ultimi anni, degna di un’analisi tra ingegneria e geopolitica.

Xiaomi, il brand che fino a ieri associavi a powerbank economici, telefoni che “sembrano un iPhone ma costano un terzo” e gadget da geek nostalgico, ora si sveglia e punta dritto al cuore del potere tecnologico globale: i semiconduttori. E non chip qualunque: stiamo parlando di un processore a 3 nanometri, progettato in casa, che dovrebbe diventare il più potente mai sviluppato in Cina per uno smartphone.
Non è solo un salto tecnico. È una dichiarazione di guerra commerciale, geopolitica, culturale. E come spesso accade in questi contesti, i numeri fanno da cornice, ma la vera partita si gioca tra linee di codice e litografia estrema.

Quando si dice “la terza è quella buona”, si dovrebbe aggiungere: solo se il petroldollaro ti benedice. E infatti, eccola lì, Qualcomm, che dopo anni passati a leccarsi le ferite nel mercato dei data center, si riaffaccia sulla scena. Ma stavolta non gioca da sola. No, stavolta c’è Humain, una start-up saudita creata per cavalcare la tigre dell’intelligenza artificiale. Una tigre addomesticata a suon di miliardi e alleanze strategiche.
La notizia è passata sottotraccia, come succede spesso con le cose davvero interessanti. Mentre l’intero circo mediatico si concentrava sui comunicati stampa rilasciati dalla Casa Bianca e dalle big tech al seguito del presidente Trump in Medio Oriente, Qualcomm ha lasciato cadere il suo annuncio con nonchalance: “Stiamo tornando nel mondo dei chip per data center AI. E partiremo da Riyadh.”

Jensen Huang, col suo look da rockstar della Silicon Valley e lo sguardo da profeta che vede l’infrastruttura del futuro, ha fatto una dichiarazione che, seppur elegantemente rivestita di “collaborazione”, puzza di resa strategica quanto basta: Nvidia apre le porte a chi prima stava fuori. NVLink Fusion, questa nuova trovata tecnologica annunciata con enfasi, è un cambio di paradigma. Ed è un cambio dettato dalla paura.

Il cuore dell’intelligenza artificiale batte in silicio. Non a Pechino, non a San Francisco, ma nei wafer da 7 nanometri che si agitano nei datacenter. E proprio lì, nei templi della computazione moderna, la Cina si ritrova ad arrancare. Non per mancanza di cervelli o ambizioni quelle abbondano ma per una cronica e crescente carenza di GPU avanzate, il carburante essenziale per l’addestramento di modelli generativi e large language model (LLM). Tradotto in linguaggio meno tecnico: puoi anche avere il miglior team di fisici, linguisti e data scientist del paese, ma se li metti a lavorare con processori di seconda mano, faranno miracoli solo nei comunicati stampa.
Wang Qi, vice di Tencent Cloud, lo dice senza troppi giri di parole: “Il problema più grave sono le schede grafiche e le risorse computazionali.” In altre parole, la Cina è seduta al tavolo del deep learning con le bacchette rotte. Non che manchino gli investimenti Tencent ha appena chiuso il miglior trimestre della sua storia con 180 miliardi di yuan ma i soldi, in questa partita, servono a poco se non puoi spenderli per acquistare il metallo giusto.

Se pensavi che la geopolitica del silicio si giocasse solo a colpi di fabbriche taiwanesi, è il momento di aggiornare il firmware. Otto parlamentari americani, bipartisan per finta ma bellicosi per davvero, hanno introdotto alla Camera USA il Chip Security Act, un gioiellino legislativo che impone ai produttori di chip AI – sì, Nvidia in primis – di integrare meccanismi di tracciamento geografico direttamente nei loro chip prima di spedirli all’estero.
La parola chiave è controllo. Quelle secondarie? esportazione e Nvidia. E intorno a queste orbita un intero universo di paranoia americana, di interessi industriali spacciati per valori democratici, e di lotta per la supremazia computazionale che oggi ha un solo nome: Intelligenza Artificiale.

Intel Foundry. Suona bene, vero? Sembra qualcosa di epico, industriale, solido. Ma come direbbe il barista sotto casa mia: “bella l’insegna, peccato che dentro vendono fumo”. Perché il gigante di Santa Clara, quello che dominava i microprocessori come un dio greco ubriaco di silicio, oggi arranca come un pachiderma con le ginocchia rotte nel tentativo disperato di diventare il TSMC d’Occidente. E no, la keyword principale non è “successo”, ma committed volume, o meglio, la sua totale irrilevanza.
David Zinsner, il CFO con lo sguardo fisso e il lessico da medico legale, l’ha detto chiaro a Boston durante la J.P. Morgan Global Technology Conference: i volumi confermati da clienti esterni per la futura tecnologia produttiva di Intel sono “non significativi”. Tradotto dal gergo da conferenza: non ci sta credendo nessuno. E sì, a livello semantico siamo immersi fino al collo nelle parole chiave: foundry model, chip AI, 18A node… Tutte belle etichette per un contenuto reale che al momento fa acqua da tutte le parti.

Shenzhen, una delle metropoli tecnologiche più influenti della Cina, ha recentemente lanciato un fondo interamente dedicato al settore dei semiconduttori, con una dotazione iniziale di 5 miliardi di yuan (circa 692,5 milioni di dollari). Questo fondo, chiamato Saimi (pronunciato “semi”, come i semiconduttori stessi), è gestito dalla Shenzhen Capital Group, un’agenzia statale, ed è un chiaro segnale del tentativo della città di rafforzare l’autosufficienza tecnologica del paese, in un contesto geopolitico teso, soprattutto con gli Stati Uniti. Sembra che Shenzhen stia preparando una partita ad alto rischio, ma sicuramente non una battaglia impari.

Nel 2025, l’oro nero ha cambiato forma: ora è fatto di silicio, transistor e interconnessioni neurali. E chi lo raffina non è più in Texas o in Siberia, ma a Santa Clara, California. Nvidia, il colosso dei chip AI, ha appena siglato un accordo da 18.000 unità GB300 Grace Blackwell con Humain, la startup saudita finanziata dal Public Investment Fund. Questi chip alimenteranno un data center da 500 megawatt, posizionando l’Arabia Saudita come nuovo hub dell’intelligenza artificiale nel Golfo.

Nvidia, il gigante dei semiconduttori, si trova a navigare in acque turbolente nel tentativo di mantenere la sua presenza nel mercato cinese, valutato 50 miliardi di dollari. Le recenti restrizioni imposte dagli Stati Uniti sull’esportazione di chip avanzati hanno costretto l’azienda a ridurre le prestazioni dei suoi chip H20 destinati alla Cina, nel tentativo di conformarsi alle nuove normative e continuare a servire i suoi clienti cinesi.

Nvidia ha accolto con entusiasmo la decisione dell’amministrazione Trump di revocare la controversa “AI Diffusion Rule”, una normativa introdotta sotto l’amministrazione Biden che avrebbe limitato l’esportazione globale di chip AI avanzati. La mossa è stata salutata come una “opportunità irripetibile” per guidare la prossima rivoluzione industriale e creare posti di lavoro ben remunerati negli Stati Uniti .

Il CEO di Nvidia, Jensen Huang, ha recentemente sollecitato l’amministrazione Trump a rivedere le attuali normative statunitensi sull’esportazione di chip per l’intelligenza artificiale, sottolineando la necessità di aggiornare le regole per consentire alle imprese di capitalizzare meglio le opportunità globali emergenti.
Le restrizioni introdotte durante l’era Biden, note come Framework for Artificial Intelligence Diffusion, limitano l’esportazione di chip AI avanzati, come quelli prodotti da Nvidia, verso mercati esteri. Una delle modifiche proposte include l’eliminazione di un sistema a livelli che regola la distribuzione dei chip in base al paese. Queste regolamentazioni, che dovrebbero entrare in vigore il 15 maggio, mirano a salvaguardare la tecnologia AI all’avanguardia limitando l’accesso ad essa al di fuori degli Stati Uniti e delle nazioni alleate.

Geopolitica: Nel teatrino tecnologico globale, mentre l’Occidente si accapiglia su etica dell’AI e regolamenti da salotto, in Cina si combatte una guerra ben più tangibile: quella per la potenza computazionale. La notizia arriva direttamente da Caijing: Tencent Holdings e Alibaba Group Holding hanno svuotato gli scaffali virtuali di ByteDance, comprandosi una bella fetta dei suoi preziosissimi chip grafici (GPU) Nvidia. E mica noccioline: parliamo di qualcosa che ruota attorno ai 100 miliardi di yuan, circa 13,7 miliardi di dollari americani. ByteDance, che già aveva stivato GPU come un contadino medievale nascondeva il grano prima della carestia, ora cede parte del suo tesoro per trarre profitto dalla fame altrui.

Huawei Technologies sta giocando una partita che non ha nulla di meno di una guerra tecnologica globale, e lo sta facendo con la tipica spavalderia di chi sa di avere poco da perdere e tutto da guadagnare. Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal (fonte), Huawei è in trattative serrate con una serie di aziende tecnologiche cinesi per sviluppare un nuovo chip di intelligenza artificiale chiamato Ascend 910D. L’obiettivo? Semplice: prendere a calci Nvidia fuori dalla porta della Cina.
Il piano è tanto ambizioso quanto disperato, nel miglior stile Huawei. Sostituire, o almeno ridurre, la dipendenza da Nvidia, che con i suoi chip domina incontrastata il mercato dell’AI, non è esattamente una passeggiata. Ma la pressione geopolitica degli Stati Uniti, con il suo repertorio di restrizioni, ha reso inevitabile questo percorso. È una di quelle mosse da “o la va o la spacca”, tipica di chi si è visto tagliare le gambe ma continua a correre, sanguinante, verso il traguardo.

TSMC ha appena svelato un pezzo del futuro, ma non aspettarti che arrivi domani. Durante il North American Technology Symposium tenutosi a Santa Clara, il gigante taiwanese dei semiconduttori ha fatto brillare i riflettori sulla sua ultima meraviglia ingegneristica: il processo logico A14, dove “14” non è un numero magico ma l’unità di misura in angstrom. Tradotto per i non iniziati: 1,4 nanometri, la dimensione atomica in cui TSMC vuole costruire il futuro della computazione.
Chiariamolo subito: A14 non lo vedremo prima del 2028, ma questo non è un problema, è parte della coreografia. Perché? Perché mentre i competitor stanno ancora cercando di capire come rendere affidabile la produzione a 2 nanometri (il famigerato processo N2, che TSMC prevede di mettere in produzione quest’anno), loro si spingono oltre, ben oltre. È come se in Formula 1 uno ti dicesse che sta già testando il bolide del 2030 mentre tu ancora stai cercando di far funzionare le gomme di oggi.

Mentre Nvidia sfodera il suo arsenale grafico e AMD prepara la riscossa sul mercato dei semiconduttori automobilistici, Intel il vecchio colosso americano spesso dato per morto nel mondo dell’AI rinasce sotto nuove forme nel posto più strategico di tutti: la Cina. E non lo fa con timidi annunci. Alla Shanghai Auto Show, davanti al palcoscenico dell’automotive elettrico globale, ha svelato il cuore del suo nuovo piano: la seconda generazione del suo System-on-a-Chip (SoC) per software-defined vehicle (SDV), alimentato da AI e pronto a entrare direttamente nel cruscotto delle auto intelligenti.
Ma la vera mossa di potere non è la presentazione del chip. È il tipo di alleanze che Intel ha siglato. Due nomi, apparentemente minori ma carichi di peso strategico: ModelBest, start-up AI fondata nel 2022 da ex cervelli di Tsinghua, e Black Sesame Technologies, designer di chip per veicoli, recentemente quotata a Hong Kong. Intel non sta semplicemente “entrando” nel mercato delle auto smart cinesi, ci si sta trasferendo con armi e bagagli. Non è un caso se ha persino spostato l’headquarter della divisione Automotive direttamente in Cina, e il suo vicepresidente Jack Weast a Pechino. Un “trasloco geopolitico” più che tecnologico.

TSMC ha appena calato un asso grosso quanto un wafer da cena natalizia. Altro che chip, qui parliamo di porzioni formato famiglia di potenza computazionale, cucinate a puntino per l’intelligenza artificiale affamata di elettroni e silicio. Il colosso taiwanese, padrone incontrastato del foundry globale, ha annunciato l’arrivo della sua tecnologia A14 prevista per il 2028, promettendo un miglioramento delle prestazioni del 15% a parità di consumo rispetto all’attuale generazione N2, oppure un risparmio energetico del 30% mantenendo la stessa velocità. Roba da far sbiancare i condensatori.
Ma il vero piatto forte, quello che fa gola a chi lavora con l’IA generativa e i modelli multimiliardari di parametri, è il cosiddetto “System on Wafer-X”. Qui non parliamo di chip, ma di interi sistemi serviti su un unico wafer. TSMC ha intenzione di intrecciare insieme almeno 16 chip di calcolo massicci, aggiungendo memoria, interconnessioni ottiche e tecnologie di alimentazione capaci di sparare migliaia di watt come fossero prosecco in discoteca.

Ecco il colpo di scena che mancava nella soap opera della Silicon Valley: Intel, un tempo il re indiscusso dei semiconduttori, è pronto a falciare oltre il 20% della sua forza lavoro, con una manovra che puzza di panico e disperazione strategica, ma che viene venduta come “snellimento” e “ritorno alla cultura ingegneristica”. Un taglio che segue i 15.000 licenziamenti dell’anno scorso e che porterà il colosso di Santa Clara a ridursi come una maglietta dopo un lavaggio sbagliato.
L’uomo dietro la scure è Tan Lip-Bu, fresco CEO da meno di un mese, già in modalità bulldozer. L’ex boss di Cadence Design Systems non ha perso tempo: prima ha venduto il 51% di Altera a Silver Lake, e ora affila la lama contro una burocrazia che, a suo dire, ha trasformato un gigante tecnologico in un pachiderma paralizzato. L’obiettivo? Semplificare la catena di comando, eliminare il middle management zavorra e rimettere gli ingegneri al centro del motore.

Nel cuore della tempesta geopolitica tra Stati Uniti e Cina, una nuova narrativa tecnologica si sta scrivendo con toni orgogliosi e una spruzzata di vendetta industriale. iFlytek, colosso cinese del riconoscimento vocale, ha annunciato che i suoi modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) ora poggiano interamente su infrastruttura computazionale cinese, grazie alla collaborazione con Huawei. Un’alleanza non solo tecnologica, ma politica, che mira a scrollarsi di dosso la dipendenza da chip americani come quelli della Nvidia, sempre più difficili da importare a causa delle restrizioni di Washington.
Dietro le quinte di questa rivoluzione sovranista dell’intelligenza artificiale c’è Xinghuo X1, un modello di ragionamento definito “autosufficiente e controllabile”. Parole scelte con cura chirurgica per rassicurare Pechino e tutti quei settori industriali strategici che vedono in questa svolta l’unica via per non rimanere ostaggio dell’Occidente tecnologico. La narrazione ufficiale vuole che, dopo un’intensa co-ingegnerizzazione con Huawei, Xinghuo X1 sia ora in grado di competere con giganti come OpenAI o1 e DeepSeek R1, secondo un post trionfalistico pubblicato su WeChat da iFlytek.

uawei si prepara a diventare l’arma strategica di Pechino nella guerra dei semiconduttori contro l’Occidente. A quanto pare, non è solo il creatore di smartphone “proibiti” o l’eterno bersaglio delle black list statunitensi. No, stavolta la compagnia di Shenzhen alza il tiro e si candida a rimpiazzare Nvidia nel suo stesso dominio: l’intelligenza artificiale. Sì, hai capito bene, si parla di GPU AI-ready. E no, non è un’esercitazione.
Secondo Digitimes, Huawei lancerà entro fine anno il chip Ascend 920, costruito su processo a 6 nanometri, pronto per la produzione di massa nella seconda metà del 2025. Questo chip, che promette prestazioni da brividi, punta dritto al cuore delle GPU H20 di Nvidia, le ultime sopravvissute sul mercato cinese dopo l’embargo tecnologico imposto da Washington. Ma ora anche quelle sono finite nel mirino delle restrizioni USA, rendendo il ban totale.