Immagina di leggere un manuale che non è il solito whitepaper patinato con buzzword spalmate sopra come burro rancido, ma un manifesto che sembra scritto per anticipare un cambio di paradigma: quello in cui AWS vuole sostituire gli stack software tradizionali con sistemi agentici autonomi, interoperabili e, soprattutto, scalabili. È un documento che trasuda visione strategica più che retorica, con un tono che assomiglia a una dichiarazione di guerra alla logica monolitica dei software enterprise, e con un dettaglio tecnico che non lascia scampo a chi ancora si illude di poter governare il futuro con qualche patch su vecchie architetture legacy.
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La vera domanda sull’intelligenza artificiale non è “cosa può fare”, ma “chi ascolta davvero i lavoratori”
C’è un dettaglio che sfugge alle menti ossessionate dal prossimo modello di linguaggio o dalla corsa spasmodica ai miliardi di dollari in venture capital. L’intelligenza artificiale non vive nel vuoto, ma nel posto più scomodo possibile: la testa e la quotidianità delle persone che la subiscono, la adottano, la temono e, soprattutto, la desiderano come strumento e non come predatore. La Stanford University ha appena fatto il gesto più eversivo che si possa immaginare in questa stagione di hype tossico: chiedere a 1.500 lavoratori e a esperti cosa vogliono davvero. Non ai founder di Silicon Valley, non ai venture capitalist, ma a chi ogni giorno si gioca la carriera tra Excel, riunioni infinite e scadenze che arrivano puntuali come le tasse. E la risposta è stata chiara, netta, quasi irriverente nei confronti della narrativa dominante.
Sembra quasi una barzelletta da Silicon Valley, ma è un benchmark accademico. Gli AI agents, quei sofisticati soldatini digitali spinti dai grandi modelli linguistici, hanno appena ricevuto una pagella reale grazie a un esperimento che suona come una sberla per chi continua a vendere la fantasia dell’automazione totale. Si chiama TheAgentCompany, è stato sviluppato da un gruppo di ricercatori tra Carnegie Mellon e Duke, e promette di essere il più completo benchmark LLM per valutare quanto questi agenti sappiano davvero comportarsi come lavoratori digitali. Il verdetto? Se aspettavi la rivoluzione dei licenziamenti di massa a causa dell’intelligenza artificiale, puoi rilassarti. Gli agenti, anche i migliori, arrancano miseramente davanti a compiti che qualsiasi impiegato medio svolgerebbe con una mano sulla tastiera e l’altra sul caffè.
Chi pensa che l’intelligenza artificiale applicata alla produttività sia solo marketing dovrebbe fermarsi un secondo e guardare cosa accade quando si uniscono Regolo AI e un n8n workflow ben progettato. Il risultato è quasi imbarazzante per chi ancora perde tempo a smistare email manualmente. Non è un gioco per appassionati di automazione, è una strategia chirurgica per sottrarre ore a compiti meccanici e restituirle al pensiero strategico. Chi non lo capisce finirà a lavorare come un impiegato del secolo scorso, con l’unica differenza che nel frattempo i concorrenti si saranno dotati di agenti intelligenti capaci di leggere, interpretare e sintetizzare informazioni in tempo reale.
Nel cuore dell’argomentazione di Utkarsh Kanwat si legge una frase che fa sobbalzare chiunque viva di hype e speculazioni sull’intelligenza artificiale automatica: «Error rates compound exponentially in multi‑step workflows» . Tradotto dal bureaucratese tech: se ogni passaggio di un agent ha il 95 % di successo, alla ventesima iterazione sei ridotto al 36 % di affidabilità complessiva. Roba da crittografia, ma al contrario: la probabilità di fallimento sale vertiginosamente. E in produzione non puoi permettertelo, servono livelli attorno a 99,9 %.
Cinque anni fa il telefono era solo un passatempo: Temple Run per fuggire dalla noia, Netflix per procrastinare, Zoom per riempire slot che avrebbero potuto essere mail. Ma nel 2025 quel cellulare è molto più di un gadget: è un organismo cognitivo in tasca, un terminale del tuo pensiero. AI generativa, lungo la catena del valore, ha trasformato lo scrolling passivo in un laboratorio di soluzioni immediate. Lo nota il WSJ: nei prossimi anni “l’interazione con AI generativa crescerà attraverso smartphone premium e PC” perché gli utenti scopriranno nuovi modelli d’uso e opportunità The Wall Street Journal.
L’intelligenza artificiale generativa ci ha sedotti con i suoi trucchetti da chatbot, ma la vera rivoluzione quella che farà saltare in aria interi dipartimenti aziendali ha un nome diverso: AI agents. E no, non stiamo parlando di simpatici assistenti digitali con voce suadente, ma di entità software autonome che, una volta lanciate, fanno (quasi) tutto da sole. E meglio di te.
Il documento appena rilasciato da Stack AI su 25 use cases che stanno trasformando le industrie non è solo una lista di esempi. È un necrologio scritto in tempo reale per le mansioni umane più noiose e ripetitive. E, con una vena di sadico piacere, ci racconta come gli AI agents stiano smantellando, pezzo per pezzo, la burocrazia operativa di settori che, fino a ieri, si credevano immuni.

Chi pensava che l’AI fosse solo una voce sintetica con buone maniere non ha capito nulla. Gli AI agent e non parlo di quei chatbot aziendali da helpdesk sono entità operative. Agiscono. E quando qualcosa agisce, può fare danni. Grossi. Stiamo parlando di una nuova classe di minacce informatiche, completamente diversa da quelle che i responsabili sicurezza avevano nel radar.
Ecco il nuovo gioco: gli agenti AI non si limitano più a chiacchierare. Interagiscono con API, file system, database, e servizi cloud. Usano browser, manipolano documenti, leggono e scrivono codice, prenotano voli, trasferiscono fondi, aggiornano CRM, e per chi è abbastanza folle orchestrano interi flussi aziendali in autonomia. Quindi no, non è solo “intelligenza artificiale generativa”, è un nuovo livello operativo. E quel livello può essere compromesso. Facilmente.
McKinsey, lancia una provocazione che dovrebbe far saltare dalla sedia chiunque occupi una stanza con più di tre monitor: la domanda fondamentale non è se usare l’intelligenza artificiale, ma quanto velocemente sei capace di riscrivere la tua azienda per sopravvivere nel nuovo ordine algoritmico. Sì, perché l’ondata degli AI agents non è solo un’ulteriore moda tecnologica, ma un terremoto operativo e strategico che sta riscrivendo le regole del gioco. E non c’è tempo per i nostalgici.
Qui non si parla di chatbot simpatici o assistenti digitali che rispondono alle email. Stiamo entrando in un’era dove gli agenti AI diventano dirigenti silenziosi, capaci di prendere decisioni, ottimizzare processi, negoziare contratti e, soprattutto, agire in autonomia. La trasformazione non è incrementale. È strutturale. Quindi la vera domanda è: la tua azienda ha il fegato, il codice e la cultura per tenere il passo?
Martedì, mentre Google e OpenAI hanno fatto il loro gioco con una serie di novità nel mondo dell’AI, Microsoft ha risposto con un annuncio che non poteva passare inosservato. La società di Redmond ha introdotto due nuovi agenti AI per Microsoft 365 Copilot, presentando Researcher e Analyst, etichettati come i primi della loro specie. Si tratta di strumenti ambiziosi, e come ogni novità nel campo dell’intelligenza artificiale, la promessa è di semplificare enormemente il lavoro quotidiano, ma il diavolo sta nei dettagli.
Researcher sfrutta un modello avanzato di ricerca di OpenAI, progettato per eseguire ricerche complesse in più fasi. A differenza degli strumenti tradizionali, Researcher non si limita a cercare informazioni, ma collega anche dati da fonti esterne come Salesforce o ServiceNow, consentendo ai clienti aziendali di ottenere intuizioni e analisi dettagliate sfruttando gli strumenti già in uso. L’idea è che gli utenti possano trarre vantaggio da una fusione tra la potenza del modello di ricerca AI e la capacità di attingere ai dati aziendali già disponibili.