Il mondo della tecnologia sta vivendo un’evoluzione profonda e, forse, inevitabile. C’è un movimento crescente che spinge verso la re-distribuzione dei fondi e delle risorse, dove la ricerca di base, quella che ha storicamente permesso alla scienza di progredire, è progressivamente messa da parte a favore di tecnologie più pratiche e già pronte per il mercato. Questo non è semplicemente un cambiamento nei paradigmi di sviluppo, ma un vero e proprio spostamento verso una mentalità più orientata al profitto, con implicazioni che potrebbero essere, se non dannose, almeno molto rischiose per la ricerca stessa.

Lo abbiamo visto con i colossi tecnologici come Google e Meta, i quali, una volta pionieri nella promozione della ricerca accademica, sembrano ora adottare una politica più conservativa e commerciale. Google DeepMind, ad esempio, ha fatto passi indietro rispetto alla tradizione di apertura e condivisione della conoscenza.

Negli ultimi anni, i ricercatori di DeepMind hanno sempre più esitato a pubblicare i loro risultati, per evitare di offrire vantaggi competitivi ai rivali nel settore della IA. La concorrenza è feroce, e, piuttosto che puntare a contribuire al bene pubblico, l’azienda sembra preferire strategicamente la protezione del suo vantaggio tecnologico. Questo movimento non è isolato, e si riflette anche nel modo in cui Meta ha recentemente ridotto la priorità per la ricerca fondamentale nell’ambito dell’intelligenza artificiale, come evidenziato dal declino della sua iniziativa FAIR (Fundamental AI Research). Le risorse, che in passato erano destinate all’esplorazione teorica e a progetti di ricerca di lungo termine, sono ora indirizzate verso la creazione di strumenti generativi di intelligenza artificiale che rispondono alle esigenze immediate del mercato.