C’è un momento nella vita di una democrazia in cui anche le istituzioni più abituate a restare sullo sfondo, fredde e imperturbabili, sono costrette a scendere in campo con parole nette, quasi con la forza di un ultimatum. Quel momento è arrivato con la lettera dei Joint Chiefs of Staff, il vertice militare più alto degli Stati Uniti, che ha definito l’assalto del 6 gennaio al Campidoglio non solo un atto ignobile, ma una vera “offesa diretta al Congresso, all’edificio del Campidoglio e al nostro processo costituzionale.”
Dietro a questa presa di posizione c’è un sottile terremoto istituzionale. Parliamo di un organo che, per natura e tradizione, evita accuratamente di calcare il terreno politico. Eppure, sotto la presidenza di Donald Trump, con la sua retorica incendiaria e la crisi istituzionale culminata in quella che molti chiamano la “guerra civile 2.0”, perfino i generali più cauti hanno dovuto alzare la voce. Non una semplice presa di distanza, ma una dichiarazione di guerra simbolica a ogni forma di sedizione e insurrezione.
Nel testo ufficiale firmato dal generale Mark Milley, capo dei Joint Chiefs, si legge un ammonimento che suona quasi come un richiamo morale e legale: “I diritti di libertà di parola e di assemblea non conferiscono a nessuno il diritto di ricorrere alla violenza, alla sedizione e all’insurrezione.” Una frase che, per chi ha assistito al caos del Campidoglio, è un colpo secco alla narrativa di chi ha cercato di giustificare la sommossa come un atto di legittima protesta.
Il richiamo ai valori e ai doveri dei militari, definiti “custodi della Costituzione”, è un altro passaggio cruciale. È come se i militari stessi si stessero sfilando dal patto implicito di neutralità politica per dire che ogni azione che tenta di minare il processo costituzionale è non solo una violazione dei loro valori, ma un atto illegale e contrario al giuramento prestato.
In questo senso, la lettera è un chiaro segnale che l’esercito non intende tollerare tentativi di colpo di stato mascherati da protesta civile. E soprattutto, con la frase che annuncia senza esitazioni l’insediamento del presidente eletto Joe Biden come “nostro 46° comandante in capo il 20 gennaio”, i Joint Chiefs chiudono ogni porta a possibili interferenze o ritardi nell’ordinato passaggio di consegne.
Questa presa di posizione dei generali va oltre il semplice atto formale. È la manifestazione plastica della rottura di equilibri delicati tra politica e apparati militari in un Paese che, a dispetto della sua immagine di faro della democrazia, ha mostrato vulnerabilità inquietanti. Una situazione in cui il ruolo dell’esercito, fino a ieri una presenza silenziosa e rispettata, diventa improvvisamente un baluardo visibile e imprescindibile contro il rischio di disintegrazione istituzionale.
Ironia della sorte, il vero shock non è stato l’assalto in sé, ma la reazione di un corpo militare tradizionalmente lontano dalla politica che ha detto “ora basta”. Forse perché, come si dice spesso tra i corridoi del Pentagono, “un esercito che perde la fiducia nella sua leadership politica è un esercito che perde sé stesso.”
La lettera ai militari dispiegati e a quelli a casa è quasi un mantra: “Rimanete pronti, tenete gli occhi all’orizzonte, restate concentrati sulla missione.” Una missione che, in tempi così tumultuosi, sembra non essere più solo la difesa del territorio, ma la tutela stessa dell’ordine democratico.
Dietro questo messaggio si nasconde anche un monito subliminale a chi pensa di poter strumentalizzare l’esercito per fini politici: il sistema di controllo e bilanciamento americano ha ancora i suoi custodi, e non è disposto a lasciarsi scavalcare da chi, spinto da ambizioni o rabbia, tenta di sovvertire le regole del gioco.
Il punto focale non è più solo politico, ma profondamente tecnologico e sociale: la gestione delle crisi, la prevenzione delle insurrezioni, la salvaguardia della democrazia in un’era di fake news e polarizzazione estrema passa anche dal modo in cui i vertici militari si collocano rispetto a queste sfide. E se il messaggio del JCS è chiaro e fermo, il dibattito su quanto questo sia un cambio epocale o solo una reazione temporanea non può ignorare il fatto che, per la prima volta da decenni, l’esercito ha ufficialmente smentito chi lo voleva una riserva indiscriminata per qualunque governo in carica.
Non è certo un caso che la presa di posizione arrivi dopo che Trump ha perso pezzi importanti della sua rete di supporto politico e militare. È come se il Paese, dopo aver raschiato il fondo del barile, cominciasse a ricostruire il suo fragile equilibrio su basi più solide, o quantomeno più trasparenti.
Senza chiamarlo così, i Joint Chiefs of Staff hanno inviato un messaggio che va oltre la lettera: la democrazia americana non è un optional né una semplice tradizione da celebrare a parole. È un sistema che ha bisogno di guardiani vigili, anche quando questi guardiani sono uomini e donne in uniforme, tradizionalmente silenziosi, ma oggi più vocali che mai.
E mentre il mondo osserva, rimane da capire se questo segnale sarà solo un episodio isolato o l’inizio di un nuovo paradigma nel rapporto tra forze armate e politica negli Stati Uniti. Perché, come diceva Churchill, “la democrazia è la peggior forma di governo, eccetto tutte le altre.” Forse oggi, più che mai, quella democrazia ha bisogno dei suoi soldati più fedeli per non diventare soltanto un ricordo.