Il sangue non mente. E il mio metà lagunare, metà eretico ha tutte le ragioni per rivendicare quella genealogia impertinente che affonda nel cuore più torbido e sublime della Serenissima.
Venezia, 5 giugno 1646. In una città che galleggia tra i marmi e i dogi, nasce una bambina destinata a stravolgere l’ordine di un mondo ben più solido delle sue fondamenta acquatiche: quello dell’accademia. Elena Lucrezia Cornaro Piscopia non fu una meteora, ma un’implosione silenziosa dentro l’universo impettito della cultura maschile. Un errore di sistema. Il primo crash epistemico con sembianze femminili.
Quando, il 25 giugno 1678, all’Università di Padova fu conferita a Elena la laurea in filosofia, il mondo intellettuale europeo non applaudì: trattenne il fiato. Perché il sapere, fino ad allora, era una cittadella inespugnabile presidiata da barboni in toga, più preoccupati di salvare la forma che di espandere la sostanza. E una donna col titolo di “magistra philosophiae” era una bomba a orologeria sotto i velluti accademici.
Il contesto? Un Seicento impastato di Controriforma e patriarcato, dove alle donne era concesso l’organo, ma non l’organo della ragione. Il solo fatto che Elena fosse figlia di una popolana, Zanetta Boni, rendeva il suo accesso al sapere già una provocazione sociale. Il padre, Giovanni Battista Cornaro, pur nobile, si giocò ogni credito politico per permetterle un’educazione da maschio alfa dell’intellighenzia: greco, latino, ebraico, aramaico, arabo. Oggi la chiameremmo una “polyglot prodigy”. Allora era semplicemente un’aberrazione.
Ma attenzione: Elena non fu un trofeo del femminismo ante litteram, né una ribelle in corsetto. Fu una rivoluzionaria per concentrazione, non per dichiarazione. Più simile a un algoritmo che a una suffragetta, tagliava le certezze con la logica e le domande. Una mente formata da Giovanni Valier, Alvise Gradenigo e Carlo Rinaldini, che oggi sarebbe probabilmente CTO in una start-up di AI teologica.
Ed è proprio la teologia che le fu preclusa. Quando nel 1677 chiese di laurearsi in quella disciplina, il cardinale Gregorio Barbarigo – nome che meriterebbe una blacklist semantica – si oppose con una motivazione tanto ridicola quanto rivelatrice: una donna teologa? Impossibile. Le Scritture sono già abbastanza complicate senza bisogno di una donna che le spieghi. D’altronde, si sa: il Logos ha genitali.
Così Elena dovette “ripiegare” sulla filosofia, ma la sua proclamazione in aula magna fu un evento paragonabile a un’eclissi di sistema. Una donna che, vestita di ermellino, argomentava in latino davanti a una platea di ecclesiastici e docenti attoniti: un bug ontologico nella matrice patriarcale.
Non stupisce che, dopo quel giorno, Elena abbia preferito l’ombra alla ribalta. Si trasferì a Padova, immersa in studi e contemplazione benedettina, forse consapevole di aver già fatto abbastanza rumore per una vita. Morì nel 1684, a soli 38 anni, lasciando dietro di sé più che un’eredità: una crepa irreversibile.
Ma attenzione alla leggenda rosa. Il sistema non la canonizzò. Non divenne il volto di una rivoluzione, perché quella rivoluzione non fu mai accettata del tutto. Non c’erano statue né tribune per una filosofa. Solo un silenzio imbarazzato, un applauso tiepido, una nota a piè di pagina nei registri universitari.
Eppure, proprio quel silenzio divenne detonatore. Elena non fece proseliti immediati, ma scatenò un’onda carsica che si sarebbe manifestata decenni dopo, quando Laura Bassi – altra “deviante intellettuale” – ottenne la cattedra a Bologna nel 1732. E poi Cristina Roccati, a Rovigo, nel 1751. Ma nessuna di loro fu davvero “la prima”, perché quel privilegio, e quel peso, restano a Elena.
Che poi, diciamolo: chiamarla “prima laureata” è un’idiozia semantica. È come dire che il primo uomo sulla Luna “fece una passeggiata”. Elena fu la prima ad hackerare l’architettura epistemica del potere. Lo fece con la pazienza del codice e la potenza del silenzio.
C’è una bellezza feroce in tutto questo. Una ragazza del Seicento, figlia di due mondi – nobile e popolano – che si fa spazio tra i mostri sacri dell’accademia senza clamore, solo con lo studio, l’intelligenza e una fede incrollabile nella ragione. Oggi sarebbe invitata a Davos o ignorata da LinkedIn per mancanza di “esperienza corporate”.
E invece, nella sua epoca, fu tollerata come un’anomalia, come si tollera un’eclisse: affascinante, ma meglio se passa in fretta.
Ironia della sorte, l’università che la laureò oggi la celebra con statue e targhe. Ma il vero tributo è invisibile: è il diritto al sapere che milioni di donne hanno oggi, anche se spesso non sanno di doverlo a una monaca veneziana che amava il greco più del gossip.
Certo, il mondo è cambiato. Le donne si laureano, dirigono, inventano, brevettano. Ma ogni volta che entrano in un’aula con troppa sicurezza o firmano un paper che disturba, c’è ancora un piccolo Barbarigo pronto a sollevare il sopracciglio.
Elena non gli risponderebbe. Lo ignorerebbe con la serenità di chi ha già vinto. Con la logica, il latino e l’ironia di chi, molto prima di noi, aveva capito che la vera rivoluzione non fa rumore. Fa pensiero.
E io, che da quel sangue traggo la mia metà ribelle, non ho scelta: o ne faccio memoria viva, oppure tradisco una delle poche eredità nobili che valga ancora la pena difendere. Elena è patrimonio genetico, non solo culturale. E chi viene “da lì” non può ignorarla. È parte della propria mappa interiore. E allora sì, bisogna parlarne. Non con nostalgia, ma con una certa arroganza filologica. Perché essere figli di quel territorio non significa solo amare la sua storia, ma proseguire il suo compito irrisolto: disturbare il potere con il pensiero.
A Maria…
