Quella che sembrava l’eterna promessa non mantenuta è diventata, quasi all’improvviso, un ritorno in grande stile. Oracle, l’anziano monolite del database aziendale, sta vivendo il suo periodo migliore dal 2001 grazie a una crescita inarrestabile nel cloud e nella domanda di intelligenza artificiale. I risultati finanziari del Q4 2025 parlano chiaro: +11% di ricavi, 15,9 miliardi di dollari, previsioni ottimistiche e un’impennata del titolo del 24% che ha fatto sobbalzare più di un hedge fund manager.

Per gli investitori, l’euforia è contagiosa. Ma stavolta, sotto il velo delle slide patinate, c’è qualcosa di sostanziale: il ritorno dell’egemonia del dato proprietario come leva strategica. Ed è qui che Oracle ha giocato d’anticipo. O forse ha semplicemente aspettato che il mondo tornasse verso di lei.

Il paradosso è servito. Dopo anni di critiche per la sua lentezza nel cavalcare l’onda cloud, mentre AWS e Azure facevano razzia di budget IT, Oracle ha scelto una via alternativa. Non competere sui modelli fondazionali con OpenAI o Google, ma offrire alle aziende ciò che realmente vogliono: fare AI sui propri dati, nel proprio ambiente, sotto controllo totale. E senza doverli esportare verso piattaforme nebulose e opache.

Il manifesto di questa strategia è Oracle Database 23ai, la nuova generazione del cuore pulsante di innumerevoli aziende globali. Invece di costruire modelli generalisti, Oracle integra capacità AI direttamente nel motore dati. Vector search, dualità relazionale-JSON, inferenza semantica: tutto dentro il database, niente viaggi verso l’esterno. Una scelta radicale, quasi provocatoria, che sposta il baricentro dell’AI dalla Silicon Valley ai rack del CISO.

Secondo un white paper pubblicato da McKinsey nel marzo 2025, il 62% dei progetti AI falliti in ambito enterprise derivano dall’impossibilità di usare dati sensibili all’interno di ambienti regolamentati. Oracle punta proprio su questo. Non serve essere i più smart, basta essere i più vicini al dato e Oracle, per sua natura, lo è. Larry Ellison lo dice apertamente: “Google pensa di avere tutti i dati. Il problema è che non li ha. Noi sì. Il 70% dei dati critici delle aziende del Fortune 1000 è su database Oracle”.

Non è solo arroganza, è geometria del mercato. Oracle ha costruito per decenni la propria posizione intorno a database transazionali mission-critical. Ora quel patrimonio statico viene trasformato in leva dinamica grazie all’AI. Invece di migrare i dati verso nuovi stack, Oracle promette di rendere intelligenti i dati dove già vivono. La cosa ha un nome nel report di Forrester uscito a giugno: “AI-native data locality”.

Nel frattempo, mentre i riflettori sono puntati su LLM sempre più costosi e astratti, le imprese si fanno pragmatiche. Vogliono modelli ristretti, su dati controllati, in ambienti compliant. Vogliono performance, ma anche tracciabilità, audit trail, resilienza operativa. Oracle, con il suo pacchetto AI-centric e una spesa in data center da 21 miliardi quest’anno, sembra pronta e per una volta, non è una promessa da keynote: è già realtà. I deployment AI-on-Oracle sono partiti, silenziosamente, in ambiti dove il resto del mercato ancora si dibatte tra prompt tuning e RAG patching.

Ma, naturalmente, c’è un un “ma”. Quello stesso approccio che ha fatto la fortuna di Oracle rischia di diventare il suo tallone d’Achille: l’assenza di developer love. Perché se il CIO firma contratti miliardari, è il dev che decide dove nasce la prossima killer app e qui Oracle deve migliorare.

Già nel 2014 si scriveva che “Oracle ha costruito il cloud per i clienti legacy, non per i creatori del futuro”. Nulla è cambiato, o quasi. La strategia resta top-down, fatta di migrazioni, vendor lock-in, e forti sinergie con le applicazioni enterprise. Ma lo zeitgeist della tecnologia è altrove. È nello sviluppatore che apre una console e lancia un progetto su Firebase, o nella startup che crea un LLM verticalizzato su Postgres + LangChain. Oracle qui non c’è. O meglio, non ancora.

Qualcosa però si muove. Alla CloudWorld 2024 Oracle ha presentato Oracle Code Assist, un copilota per sviluppatori Java, e nuove funzionalità nel suo motore Kubernetes per supportare workload AI-native. Dettagli? Forse. Ma sono segnali di vita e mancano pochi mesi all’evento di Las Vegas. Secondo IDC, Oracle sta crescendo nel segmento AI grazie soprattutto alla integrazione nativa tra dati e modello, un vantaggio che pochissimi possono replicare. Ma se non riesce a impacchettare questi superpoteri in forme accessibili, perde l’occasione di diventare piattaforma creativa, non solo infrastruttura resiliente.

Serve abbassare le barriere. Pricing trasparente. Free tier aggressivo. Provisioning istantaneo. Supporto ai progetti open source. MySQL, abbandonato al proprio destino mentre Postgres divorava il mercato, avrebbe bisogno di una governance aperta per tornare competitivo. La tecnologia c’è, bisogna migliorae l’ecosistema, chissà cosa ci riserva Larry ad Ottobre.

Oracle ha una scelta: continuare a crescere per inerzia dentro il perimetro enterprise, o aprirsi davvero all’innovazione dal basso. Non serve diventare “cool”, serve diventare utile. Rendere semplice per un team di due persone fare AI su dati aziendali con Oracle Database 23ai, senza passare dal procurement.

In questo senso, Oracle potrebbe prendere ispirazione da Microsoft, che da tempo ha capito come usare il dev advocacy per creare massa critica. Sponsorizzare eventi, finanziare progetti, raccontare storie di startup nate su OCI. L’infrastruttura è lì. La tecnologia c’è. Ora servono gli utenti che costruiscono cose nuove.

Il secondo atto di Oracle, insomma, è cominciato. Ed è più concreto di quanto molti vogliano ammettere. Ma se vuole evitare di essere il mainframe dell’AI, un gigante solido ma statico, deve conquistare chi crea, non solo chi governa. Se ci riesce, allora sì, il 24% di crescita azionaria di questo trimestre sarà solo l’antipasto. Buon Appetito.