Un caffè amaro al BAR dei Daini
Nonostante l’ultima stretta di Donald Trump abbia graziosamente risparmiato i semiconduttori dalla nuova ondata di dazi, il settore ha continuato a cadere a picco con l’eleganza di un frigorifero lanciato da un grattacielo. Venerdì, la tecnologia pesante del Nasdaq ha segnato ufficialmente l’ingresso in territorio orso, con un calo di oltre il 20% da dicembre. Una discesa verticale che ha lasciato investitori, analisti e CEO con lo sguardo perso nel vuoto, come chi si sveglia con l’hangover e il conto in banca azzerato.
Mentre Trump sbandiera esenzioni strategiche in favore del comparto tecnologico, la realtà bussa alla porta con i guantoni. Quattro delle dieci peggiori performance dell’anno nel Nasdaq arrivano proprio dal settore dei semiconduttori, una coincidenza che farebbe sorridere perfino Kafka. Marvell Technology ha perso il 12% solo nelle contrattazioni di metà giornata, raggiungendo un catastrofico -50% da inizio anno. ON Semiconductor la segue da vicino con un -44% che sa di condanna più che di correzione. E poi ci sono i soliti sospetti: Broadcom, Microchip Technology, Nvidia, Micron, Super Micro, TSM. Tutti in caduta libera, nessuno escluso.
Il Philadelphia Semiconductor Index, punto di riferimento per l’intero comparto, ha perso un altro 7%, raggiungendo livelli che non si vedevano da novembre 2023. Lo tsunami non risparmia nemmeno i titani dell’intelligenza artificiale: Nvidia cede un altro 6%, vanificando in poche settimane una cavalcata lunga un anno. Non serve il manuale di Warren Buffett per capire che quando anche i titani vacillano, il terreno sotto i piedi non è più solido, ma sabbie mobili.
Micron, l’unico che sembrava immunizzato fino a ieri, ha mollato un sonoro -9%. E Taiwan Semiconductor, barometro globale della produzione chip, registra un drammatico -25% YTD. Tutto questo, mentre Trump gioca a Risiko con i dazi.
La risposta cinese non si è fatta attendere. Da Pechino è arrivata una ritorsione chirurgica: 34% di dazi su tutte le importazioni americane a partire dal 10 aprile. E se sommiamo questi nuovi dazi alle misure già esistenti, il made in USA rischia di entrare in Cina con un sovrapprezzo da gioielleria: fino al 79%. Per dare un’idea, è come se Amazon ti facesse pagare le cuffiette 500 dollari perché arrivano da Boston.
Nel frattempo, Trump ostenta ottimismo da Truth Social, dichiarando di aver avuto una “chiamata produttiva” con To Lam, il Segretario del Partito Comunista vietnamita. Secondo l’ex presidente, il Vietnam sarebbe pronto ad abbattere i dazi su beni americani a zero. Una concessione apparentemente generosa, ma più che una vittoria diplomatica sembra il classico fuoco di paglia: anche perché, lo stesso Vietnam è stato appena colpito da un dazio USA del 46%.
A peggiorare il quadro, ci sono i danni collaterali sulle catene produttive globali. Apple, che già produce il 20% degli iPad e una buona fetta degli AirPods e Apple Watch in Vietnam, ha lasciato sul campo un altro 4%. In Indonesia, Apple ha appena investito 300 milioni di dollari, solo per trovarsi bersagliata da una nuova tassa del 32%. E in India, che ha ricevuto un 26% di dazio, produce già il 15% degli iPhone globali, destinato a salire al 25% entro fine anno. Un colpo diretto alla strategia di diversificazione geografica di Cupertino, che potrebbe cominciare a costare molto più di quanto previsto nel budget.
L’effetto domino è chiaro: le guerre commerciali non sono una scaramuccia tra doganieri, ma un bulldozer che passa sopra l’intero ecosistema tecnologico globale, dal fornitore di silicio taiwanese fino al ragazzino che aspetta il suo nuovo iPhone in un centro commerciale del Midwest. Il peggio? Forse deve ancora arrivare.