Partiamo dall’autoincensamento iniziale: “abbiamo il 30% in più di ricercatori AI rispetto agli Stati Uniti”. Sembra un numero promettente, ma come ogni buon CTO sa, il numero di teste non è garanzia di innovazione se queste menti brillanti si perdono nei meandri delle gare pubbliche, dei fondi strutturali a rilascio triennale, o peggio, emigrano per trovare un ambiente dove il codice si scrive davvero, non solo nei documenti strategici.
Il piano prevede la creazione di AI Gigafactories, una terminologia che strizza l’occhio al linguaggio muscolare di Elon Musk, ma che nella pratica sarà alimentata da partnership pubblico-private e un fondo chiamato InvestAI, con l’obiettivo (futuribile) di mobilitare 20 miliardi di euro. Mobilitare, non investire. Il linguaggio conta. E il fatto che si stia solo lanciando una Call for Interest significa che, ad oggi, di concreto c’è poco più di un foglio Excel.
Ci sarà anche il lancio di 13 AI Factories sparse per l’Europa, che dovrebbero fungere da catalizzatori regionali per lo sviluppo e l’adozione dell’AI. Ma senza una strategia chiara di interconnessione tra queste entità, rischiamo di creare cattedrali nel deserto digitale, isolate e autoreferenziali, piuttosto che un network sinergico capace di scalare.
Interessante, almeno sulla carta, l’idea delle Data Labs integrati alle AI Factories per facilitare la condivisione sicura dei dati. Ma serve ricordare che il GDPR, con le sue mille ambiguità interpretative, resta un fardello imponente per qualsiasi progetto che voglia usare dati reali. Finché non si armonizza la regolamentazione con la necessità operativa, i Data Labs rischiano di essere poco più che laboratori di teoria.
Il fatto che solo il 13% delle aziende europee usi l’AI oggi è un campanello d’allarme che non si può ignorare. Il piano lo cita, ma senza un’azione shock che porti l’adozione tecnologica dentro la PMI manifatturiera e nei servizi pubblici locali, anche qui si resta nella retorica. La produttività europea è stagnante da anni, e l’AI potrebbe essere il volano giusto, ma va portata nelle fabbriche, non lasciata nei PDF.
Altro punto fondamentale, lo sviluppo delle competenze. Si parla di un’AI Academy collegata alle AI Factories, e di facilitazioni per attrarre talenti extra-UE. Buona idea, ma sempre che i visti arrivino in tempo, che gli stipendi siano competitivi con quelli USA, e che non si finisca nella solita paralisi burocratica fatta di bandi e procedure di selezione infinite.
L’unico vero punto cinicamente pragmatico dell’intero piano è l’impegno a minimizzare il peso regolatorio, attraverso un AI Service Desk e documenti guida per interpretare l’AI Act, una normativa che già prevede che l’85% dei sistemi AI non rientri nei vincoli regolatori. Ottimo. Ma dire che l’85% non è soggetto a regolazione è una non-notizia: il problema sono i casi limite, i dubbi interpretativi, e la lentezza con cui si definiscono gli standard.
Mentre gli Stati Uniti e la Cina corrono a briglia sciolta nel selvaggio West dell’intelligenza artificiale, tra venture capital, algoritmi spregiudicati e startup che crescono come funghi radioattivi, l’Unione Europea si guarda allo specchio e, per la prima volta, ammette: “forse ci siamo un tantino complicati la vita da soli”. E così, con una mossa che sa di autocritica tardiva travestita da lungimiranza, Bruxelles annuncia una semplificazione delle sue regole sull’IA. No, la famigerata AI Act non viene abolita, né riscritta. Semplicemente, si cerca di renderla meno simile a un labirinto burocratico e più a qualcosa che un’azienda, magari una PMI italiana che ancora manda fatture in PDF, possa davvero usare.
Il problema è chiaro: mentre il continente annaspa tra privacy, diritti fondamentali e paure esistenziali da romanzo distopico, il resto del mondo costruisce modelli sempre più potenti, li mette sul mercato, e raccoglie miliardi in valorizzazioni. In Europa invece, molti innovatori guardano alle regole come a un deterrente, non a una guida. Non si tratta solo di compliance: è il clima di incertezza regolatoria che fa scappare talenti e investimenti. La preoccupazione vera è che l’AI Act, nella sua forma originaria, possa trasformarsi in un monumento all’auto-sabotaggio industriale.
Con questa svolta soft, l’UE cerca di recuperare terreno e credibilità. I documenti di supporto dovrebbero evitare che ogni interpretazione delle norme richieda il consulto di tre studi legali e quattro caffè lunghi. Gli standard tecnici serviranno a evitare che ogni startup debba reinventare la ruota, o peggio, aspettare che sia qualche commissione a spiegare come girarla. Il codice di condotta, per ora volontario, sembra una versione “light” della regolazione, una sorta di patto tra adulti consenzienti: ti comporti bene, ti lasciamo lavorare.
Resta però il dubbio: è una vera apertura alla crescita tecnologica o solo maquillage regolatorio per salvare la faccia? Introdurre uno sportello informativo è un passo nella giusta direzione, ma la vera partita si gioca sull’atteggiamento culturale dell’Europa verso l’innovazione. Finché si continuerà a vedere l’IA come una bomba a orologeria da disinnescare piuttosto che come una leva strategica da attivare, il gap con le superpotenze non potrà che aumentare.
Per chi vuole illudersi che la semplificazione basti, ecco l’annuncio ufficiale che spiega come l’Europa stia cercando di rendere la sua legge meno indigesta: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/speech_25_1022
Nel frattempo, chi ha un’idea, un LLM addestrato nel garage e un po’ di capitale, continua a prendere il primo volo per San Francisco. O Shenzhen.