La soap opera infinita chiamata OpenAI continua a regalarci colpi di scena degni di un thriller psicologico ambientato nella Silicon Valley. Nell’ultimo episodio, Elon Musk sembra aver “bloccato” la ristrutturazione legale della compagnia, impedendo che la sua divisione for-profit si emancipasse dal controllo della no-profit. Una vittoria simbolica per l’uomo più rumoroso del tech? Forse. Ma dietro questa mossa apparentemente difensiva, si nasconde una realtà molto più sofisticata, cinica e… altmaniana.
Sam Altman, l’enfant prodige dell’intelligenza artificiale, sembra aver accettato di buon grado la sconfitta apparente. Ha rinunciato, almeno formalmente, al piano di separare i due mondi di OpenAI, lasciando il controllo dell’azienda ancora in mano alla fondazione non-profit. Ma chi controlla davvero la fondazione? Spoiler: probabilmente proprio lui. Perché il vero gioco non è quello degli assetti societari sulla carta, ma quello del potere nei board, nel capitale umano e nei processi decisionali interni.
Il consiglio attuale di OpenAI è completamente rinnovato rispetto a quello che fece fuori Altman nel novembre 2023. Ora è più largo, più amico, più aligned con la visione del suo CEO. Con dieci membri, molti dei quali inseriti dopo il suo rientro trionfale, Altman ha avuto ampio tempo e spazio per costruirsi una roccaforte di fedelissimi. L’idea di creare board separati per la divisione no-profit e quella for-profit suona più come una finta democratizzazione del potere che una reale apertura. È governance teatrale per soddisfare i critici, mentre dietro le quinte, lo script lo scrive sempre lui.
Il vero rischio, come nota giustamente l’analisi di The Information, non è Elon Musk, ma i regolatori. Se qualche procuratore generale statunitense decidesse che questa no-profit è in realtà una creatura troppo opaca per essere lasciata a sé stessa, le cose potrebbero complicarsi. Ma finché nessuno grida allo scandalo istituzionale, Altman può continuare a tessere la sua tela.
Elon, dal canto suo, ha probabilmente sperato che bloccando la ristrutturazione avrebbe tagliato le gambe a OpenAI nella raccolta fondi, favorendo la sua xAI, lanciata con il consueto hype muskiano. Ma l’esito sembra tutt’altro. OpenAI ha comunicato che trasformerà comunque i diritti economici degli investitori in azioni della divisione for-profit. Questo lascia intatta la possibilità di IPO, probabilmente dorata e molto tech-style: visibilità zero sul controllo aziendale, ma ritorni potenzialmente stratosferici.
E qui arriva la verità più cruda di tutte: agli investitori, oggi, non frega più nulla del controllo. Se possono entrare nella macchina AI che sembra destinata a cambiare il mondo (o almeno le valutazioni dei fondi), allora va bene tutto. Che siano azioni senza diritto di voto, con governance opaca, o persino senza un consiglio indipendente: l’importante è avere un piede dentro.
Lo dimostra il caso di Mira Murati, ex CTO di OpenAI, ora fondatrice di Thinking Machines Lab. Sta raccogliendo fondi con clausole che le garantiscono potere assoluto. E gli investitori ci stanno. Perché nella corsa all’intelligenza artificiale, la nuova valuta è l’accesso, non la democrazia.
Altman lo sa. Ha visto cosa funziona: il modello Zuckerberg, il modello Page-Brin, il modello Musk stesso. Il controllo non si negozia. Si costruisce e si blinda dietro strutture legali e fidati soldatini del board.
Quindi sì, Musk ha fermato il colpo di mano giuridico. Ma ha vinto davvero? Oppure ha solo ottenuto una parata mediatica, mentre il suo rivale ha messo un altro mattone nel suo impero?