Eddy Cue, l’uomo che gestisce il colossale business dei servizi in Apple, ha lanciato una frase che è passata come una bomba a orologeria nelle stanze della Silicon Valley. Durante il processo antitrust contro Google su Search, mentre la Corte dibatteva su monopolio e concorrenza, Cue ha sganciato la vera mina sotto il tavolo: “Potremmo non aver bisogno dell’iPhone tra dieci anni”. Come dire: il cavallo da corsa che oggi traina la carrozza di Cupertino potrebbe diventare una carcassa museale entro una decade. Perché? L’intelligenza artificiale.
Nel linguaggio oracolare di chi gioca a poker con le sorti dell’industria tecnologica, quello che Cue ha fatto non è solo un’ammissione di vulnerabilità. È una mossa strategica: inoculare il virus della paura proprio mentre si discute di potere monopolistico. Per Apple, parlare della fine dell’iPhone è come se la Coca-Cola ammettesse che nel futuro nessuno berrà più bibite gassate. È la retorica del fuoco amico, ma con una lucida intenzione: non siate spaventati dal nostro potere oggi, perché domani potremmo essere irrilevanti.
Cue ha citato esempi che pesano come lapidi nel cimitero delle big tech: HP, Sun Microsystems, Intel. Chi se li ricorda più? Giganti ieri, relitti oggi. Apple non vuole diventare la prossima voce nell’elenco delle meteore. Ed è qui che il paragone con l’iPod si fa chirurgico. Cue lo definisce “la miglior cosa che abbiamo fatto: ucciderlo”. Perché? Perché Apple capì che stava arrivando qualcosa di più grande. L’iPhone. Distruggere il vecchio totem per far spazio al nuovo culto. Una forma di cannibalismo evolutivo, molto darwiniano, molto Apple.
Ma questa volta il nemico è diverso. L’AI non è un nuovo device, è una nuova forma di interazione, una discontinuità epistemologica. Non parliamo più di schermi, ma di invisibilità. Di wearable che ascoltano, comprendono, decidono. Meta ci ha provato con i Ray-Ban intelligenti, salvo poi scoprire che nessuno vuole parlare agli occhiali. Anche Humane, con il suo Ai Pin, sta tentando la magia del dispositivo disincarnato. Finora nessuno ha centrato il bersaglio. Ma tutti stanno cercando di scoccare la freccia giusta.
Apple lo sa. E lavora nell’ombra. Si sussurra di AirPods con sensori biometrici, Apple Watch che diventa coach AI e occhiali connessi che potrebbero fare ciò che l’iPhone oggi fa, ma senza il peso dell’interfaccia visiva. Un mondo dove il touch è superfluo e il device si dissolve nella pelle, nella voce, nei gesti. Un mondo dove l’iPhone è troppo fisico, troppo lento, troppo visibile per reggere il passo.
Ma attenzione: non è detto che Apple voglia realmente uccidere l’iPhone. Il vero gioco è mantenere il dominio anche quando il campo da gioco cambia forma. Uccidere l’iPhone non è il fine. È solo il prezzo da pagare per restare il marchio attorno al quale gira la nuova orbita tecnologica. Come direbbe Cue: “Non siamo un’azienda di dentifricio”. Perché il dentifricio serve sempre, ma non si trasforma mai. Apple invece vuole mutare. Come un virus che cambia ceppo per sopravvivere.