Quando si parla di Apple e privacy, la narrazione ufficiale è sempre quella del paladino della riservatezza digitale. Una sorta di templare high-tech che combatte contro le Big Data e i loro appetiti famelici. Eppure, ogni tanto, anche il cavaliere più lucente inciampa su un sasso, e nel caso di Cupertino, il sassolino si chiama Siri. O meglio, il modo in cui Siri ha ascoltato più del dovuto. Ora, dopo anni di accuse e class action, arriva il sigillo finale: Apple ha accettato di pagare 95 milioni di dollari per mettere a tacere una brutta storia di privacy violata.

E la chicca? È partito il sito per richiedere il proprio “risarcimento”, che nel migliore dei casi equivale a 20 dollari per dispositivo, massimo 100 a famiglia. Un buffet di briciole per milioni di utenti, ma in perfetto stile Apple: elegante nella forma, minimale nel contenuto.

Tutto nasce da una serie di denunce che accusavano Siri l’assistente vocale che dovrebbe facilitare la nostra vita digitale – di registrare conversazioni in modo improprio. Non solo quando veniva attivata con il fatidico “Hey Siri”, ma anche per errore, in maniera casuale, catturando pezzi di conversazioni personali, intime, magari professionali. Il tutto archiviato, gestito, analizzato. Apple, ovviamente, ha sempre minimizzato. Fino a quando non è diventato più conveniente pagare che continuare a negare.

Il sito ufficiale per presentare la richiesta è attivo per chi vuole tentare la sorte o semplicemente reclamare ciò che gli spetta, ecco il link al portale del Siri Privacy Settlement. Non c’è da aspettarsi una pioggia di dollari, ma almeno è un gesto simbolico. O, come direbbe qualcuno a Cupertino, un atto di trasparenza e accountability. Peccato che arrivi dopo anni di silenzi.

Nel frattempo, il caso Siri si inscrive perfettamente nel grande romanzo nero delle big tech: quei colossi che a parole difendono la privacy, ma nei fatti la interpretano con molta, troppa flessibilità. È la solita narrativa dell’”opt-in implicito”, delle clausole scritte in corpo 5, delle funzionalità attivate senza un vero consenso informato.

Per Apple, che ha costruito un’intera identità di brand sul concetto di fiducia, questa vicenda è un danno di immagine ben più pesante del costo economico. Certo, 95 milioni sono una mancia nel bilancio di Cupertino. Ma il messaggio agli utenti resta chiaro: non esiste dispositivo smart che non sia anche un potenziale microfono spia. Non importa quanto costi o quanto sia ben confezionato.

E a chi pensa che 20 dollari siano un buon affare per una privacy compromessa, vale la pena ricordare: quando qualcosa di tecnologico è troppo bello per essere vero, probabilmente sta ascoltando anche mentre dormi.