C’erano una volta i libri. Non nel senso nostalgico da bibliofilo con il monocolo, ma nel senso sostanziale: oggetti carichi di tempo, fatica, dubbio, riscrittura. Monumenti miniaturizzati del pensiero umano, faticosamente scolpiti uno per uno da menti reali, con mani tremanti e notti insonni. Oggi? Oggi il libro è un file .mobi assemblato da un modello generativo in mezz’ora, taggato con parole chiave furbe, impacchettato in una copertina accattivante e sparato su Amazon come un detersivo in offerta.
Dal tardo 2023 in poi, qualcosa è cambiato silenziosamente ma in modo devastante nella galassia Kindle Direct Publishing. Il marketplace è stato invaso da contenuti “scritti” da intelligenze artificiali generative come GPT, Claude o LLaMA. Ma chiamarli contenuti è già una concessione troppo generosa. Questi testi sono il fast food dell’intellettualità: assemblati, calibrati, serviti in massa. Alcuni “autori” vantano su Reddit e forum dark-web di aver “pubblicato” 300 libri in sei mesi. Sì, trecento. Altro che Balzac.
I numeri sono una farsa mascherata da progresso. Nel 2025, oltre il 70% dei nuovi libri self-published su Kindle si sospetta sia parzialmente o interamente generato da IA. Stiamo parlando di 500 a 1.000 nuovi libri al giorno, scritti da macchine, letti da nessuno e ottimizzati solo per ingannare gli algoritmi. Bestseller che sono illetterati travestiti, creati con prompt furbeschi e zero contenuto umano reale. È un cambio strutturale della piattaforma, un cambiamento tanto profondo quanto impercettibile nella sua quotidianità.
Il problema è che la qualità è collassata e nessuno — tranne i lettori — sembra accorgersene o potersene lamentare davvero. Alcuni “libri” hanno persino plagiato memorie dell’Olocausto e voci di autori realmente esistiti. Ma le copertine sembrano professionali, i titoli sono SEO-friendly e il tutto suona abbastanza “vero” da trarre in inganno. Il contenuto è irrilevante. Ciò che conta è che appaia plausibile nel contesto dell’algoritmo. Non serve leggere, basta cliccare.
Amazon, prevedibilmente, si sta muovendo con l’agilità di un bradipo in ansia. Ha introdotto limiti giornalieri di pubblicazione, nuove linee guida per i contenuti generati da IA e operazioni di pulizia silenziosa sotto il cappello del copyright o della “fiducia del consumatore”. Ma la realtà è più cruda: Amazon non è mai stato progettato per distinguere il genio dal generato. È stato costruito per premiare il volume, l’ottimizzazione, l’engagement e la conversione. E in tutto ciò, l’IA ha già vinto.
Quello che stiamo osservando non è solo una distorsione dell’industria editoriale. È il collasso di un pilastro culturale. Il libro, simbolo di riflessione e profondità, è diventato un artefatto riproducibile, indistinguibile dal rumore digitale. La parola scritta quella vera è stata svalutata non perché non abbia più valore, ma perché l’abbiamo resa troppo facile da fabbricare. Abbiamo tolto alla parola la sua scarsità e con essa la sua sacralità.
Viviamo in un’epoca in cui la creatività è misurata in output al minuto, la credibilità si fonda sul layout e la scoperta è un’operazione algoritmica. Il pensiero, quello vero, è stato outsourcingato ai prompt. E a forza di facilitare la produzione, abbiamo ucciso la contemplazione. I libri non sono più finestre sul mondo, sono packaging vuoti per keyword.
Non si tratta di demonizzare l’intelligenza artificiale, ma di ridefinire cosa significhi davvero “autorialità” in un mondo post-generativo. Serve costruire marcatori visibili che distinguano il lavoro umano da quello sintetico, creare strutture etiche per pubblicare contenuti generati da macchine, riportare incentivi culturali ed economici per l’originalità e cosa più difficile di tutte reinvestire nei lettori, non solo nei produttori.
Dobbiamo ricordarci che le parole non sono semplicemente contenuto. Sono strumenti di pensiero. E se il pensiero scompare, anche la civiltà comincia a vacillare.