Elon Musk voleva mangiarsi la torta e farsela servire dal Congresso. Ma stavolta gli è rimasta di traverso. Il tentativo di prendere il controllo dell’Ufficio Copyright statunitense roba da nerd che scrivono documenti noiosi da 300 pagine che nessuno legge, ma che decidono il futuro dell’intelligenza artificiale si è trasformato in un boomerang politico, giuridico, e pure un po’ esistenziale. Una guerriglia tra oligarchi della Silicon Valley, populisti a caccia di vendette, e funzionari pubblici buttati giù dal treno in corsa senza biglietto di ritorno.

L’intreccio è quasi hollywoodiano, se Hollywood non fosse in sciopero per colpa della stessa AI che ora sta riscrivendo le regole del copyright.

Tutto comincia con Trump — ma quando non comincia con Trump, ormai? che licenzia la bibliotecaria del Congresso Carla Hayden e la direttrice dell’Ufficio Copyright Shira Perlmutter. Il motivo? Ufficialmente nessuno. Ufficiosamente, un report appena pubblicato che non faceva sconti all’industria dell’AI, dicendo chiaro e tondo che usare “trovi di opere protette per generare contenuti concorrenti” non rientra nel fair use. Tradotto: se prendi milioni di testi, immagini o musica per addestrare il tuo modello, e poi ci guadagni sopra, sei un pirata con la cravatta, non un innovatore.

Peccato che Musk, insieme al suo sodale David Sacks — ribattezzato con toni distopici “White House AI & Crypto Czar” avesse appena investito capitale politico per convincere Trump a fare pulizia. Obiettivo: rimuovere gli ostacoli normativi alla monetizzazione massiva dei dataset illegali. L’AI non dorme, e nemmeno la fame di training data. Ma chi semina Musk, raccoglie Nieves.

Perché a sorpresa, al posto degli epurati arrivano tre nomi che sembrano usciti da una fanfiction di Steve Bannon: Paul Perkins, un mastino del DOJ esperto in frodi, Brian Nieves, avvocato tutto “Big Tech bad”, e Todd Blanche, l’uomo che ha difeso Trump nel processo penale a Manhattan e ora si ritrova a dirigere l’intera Library of Congress con la grazia di un bulldozer in un negozio di porcellane costituzionali.

Il trio non è amico dell’AI. Non è neppure neutrale. È attivamente ostile. Perkins, dicono, ha già nel cassetto un paio di bozze per iniziative anti-siliconiane. Nieves è il tizio che lavorava a fianco di Jim Jordan a investigare Facebook come fosse un covo di comunisti. Blanche è lì per “farla pagare ai tech bro”, come ha detto senza mezzi termini un lobbista a The Verge. Ironia? È stato proprio Musk a dare il calcio d’inizio a questa partita, ma ora in campo ci sono solo difensori anti-tech che vogliono chiudere le frontiere del copyright con i droni.

Eppure non è solo una faida tra lobby. È uno scontro tra due visioni incompatibili: da una parte, il capitalismo cognitivo di nuova generazione, che considera i dati come il petrolio gratuito del XXI secolo. Dall’altra, un’alleanza tra conservatori culturali, repubblicani populisti e qualche democratico old-school che, per una volta, si trovano d’accordo nel dire che rubare contenuti ai creatori per darli in pasto a modelli da miliardi non è innovazione: è appropriazione indebita con gli avvocati al seguito.

Mike Davis, uno dei consiglieri antitrust di Trump, ha detto la cosa più sensata e più sbagliata di tutto questo dramma: “Non dobbiamo rubare contenuti per competere con la Cina. È un argomento da bar”. Esatto, ma è proprio al bar che si decidono i destini, quando gli algoritmi li scrivono in background. Sì, perché nessuno sa ancora se quei report sul fair use contino davvero. Non hanno valore vincolante nei tribunali. Ma tutti li leggono, tutti li citano, e quando il Congresso dorme — cioè sempre — quei documenti diventano la Bibbia delle cause legali che verranno.

Il punto è che il report dell’Ufficio Copyright non era nemmeno così estremo. Diceva, più o meno: ci sono casi in cui si può parlare di fair use, altri in cui no, vediamo come evolve il settore. Una posizione da mediatori, non da crociati. Ma è bastato questo a far scattare la paranoia pro-Musk, il contrattacco MAGA, e infine il caos totale.

La Library of Congress, per dire, non sa nemmeno se può legalmente obbedire agli ordini di Trump. Tecnicamente, è un organo del Congresso, non dell’esecutivo. Quindi il presidente potrebbe non avere alcun potere di rimuovere la bibliotecaria o nominare il direttore del Copyright. Un dettaglio legale? Forse. Un altro pezzo della crisi costituzionale americana? Sicuramente.

In mezzo, ci sono le major dei contenuti — che di solito stanno con Big Tech, ma ora si ritrovano con gli anti-tech perché hanno paura di essere cannibalizzate. Il nemico del mio nemico è un Trumpista col bazooka legislativo. E va bene così, purché blocchi l’ennesimo saccheggio digitale.

Qualcuno l’ha chiamata “la situazioneship tra MAGA e tech”: una relazione tossica, intermittente, piena di gelosie e colpi bassi. L’amore era nato su Twitter, ma ora si consuma tra le pieghe della legge sul copyright. E quando i giudici inizieranno a esprimersi sui casi già pendenti — contro OpenAI, Google, Anthropic e compagnia cantante — sarà troppo tardi per rimediare con qualche nomina ad interim.

La verità è che ci siamo infilati in una tempesta perfetta. Gli algoritmi divorano contenuti protetti con una fame insaziabile, le norme sono lente come un modem 56k, e la politica americana è diventata un’arena da wrestling dove si gioca con le regole solo se conviene. E ora, il Copyright Office, da sempre ignorato come un parente noioso ai pranzi di Natale, è diventato il campo di battaglia centrale della guerra per l’anima dell’intelligenza artificiale.

Come ha detto qualcuno in una chat criptata tra lobbisti: “Abbiamo cacciato Perlmutter per far spazio a uno peggiore? Complimenti, Elon. Hai vinto. Ma a perdere siamo tutti noi.”