Senza nemmeno suonare il gong, Google entra nella gabbia dell’intelligenza artificiale con l’ennesima trovata, mascherata da filantropia tecnologica: l’AI Futures Fund. Un nome da romanzo cyberpunk di serie B, ma con dentro il solito schema di colonizzazione strategica: capitali, risorse, controllo. Questa volta però non si parla di acquisizioni muscolari alla “dammi la tua startup e ti compro pure il cane”, ma di una seduzione più sottile. Il fondo non ha scadenze, non segue coorti, non chiede pitch al minuto. È sempre aperto, sempre pronto. Tipo l’occhio di Sauron, ma con badge di Google Cloud.
Inutile girarci intorno: la keyword è controllo. Quello del pensiero computazionale, della direzione creativa dell’AI, dell’evoluzione dei modelli. Non è un caso che al centro del progetto ci sia DeepMind, il gioiello inglese addestrato a risolvere scacchi, proteine e ora, evidentemente, startup con sindrome da unicorno precoce.
A chi è rivolto questo fondo? A chiunque stia lavorando su qualcosa che respira e ragiona in machine learning, ma possibilmente non troppo lontano dal perimetro mentale di Google. Ti piace giocare con LLM? Ti stai inventando un motore di inferenza? Stai cercando di rendere produttiva l’AI generativa per più di tre giorni consecutivi? Bravo. Vieni qua, ti diamo tutoraggio tecnico (leggi: ti mettiamo accanto qualcuno che ti insegna come pensare “alla Google”), ti regaliamo crediti cloud (così impari a dipendere dal nostro stack) e se ci piaci, forse – ma proprio forse – investiamo.
Ma la parte davvero interessante non è nel cosa danno, ma nel quando. Le startup accettate avranno accesso anticipato a modelli DeepMind non ancora rilasciati pubblicamente, roba che nemmeno i centri di ricerca universitari riescono a ottenere. Non è solo una questione di strumenti: è una questione di tempo. Chi ha tempo, vince. Chi ha accesso, detta la linea. Chi entra oggi, sarà inevitabilmente più avanti di chiunque altro domani.
Ecco il punto cruciale: Google sta creando il proprio sistema immunitario nel mondo AI. Sceglie gli organismi promettenti, li nutre, li integra. Non li compra, ma li plasma. Li tiene abbastanza vicini da poterne trarre vantaggio, ma abbastanza autonomi da sembrare neutrali. È la versione 3.0 dell’open innovation, dove l’open è una porta girevole in vetro riflettente: vedi tutto, ma entri solo se piaci all’algoritmo.
Primi figli del culto? Viggle, che combina AI e meme in movimento (sì, in pratica il TikTok dei deepfake simpatici) e Toonsutra, un progetto che vuole reinventare i webtoon con modelli generativi. Due casi apparentemente naif, ma che nascondono l’ossessione moderna per l’infotainment algoritmico. Più contenuti, più engagement, più dati. Ogni riga generata, ogni frame sintetizzato è una nuova unità di addestramento.
Chi ha colto il sottotesto ha già capito: non è un fondo per “supportare” le startup. È un modo per standardizzare il futuro dell’AI, rendendolo Google-compatibile by design. Perché se tutti usano i tuoi strumenti, i tuoi modelli, la tua infrastruttura cloud… allora ogni innovazione che nasce è, in fondo, un ramo del tuo albero. Non serve più conquistare il mondo, basta modularlo.
E ovviamente, questo AI Futures Fund si inserisce in una strategia più ampia, che è ormai un’operazione di terraformazione culturale. 20 milioni alla ricerca AI, 120 alla formazione globale, un acceleratore no-profit per far finta di essere buoni. Non manca nulla. Manca solo il brand della nuova religione: “We are not building AI, we are mentoring it”. Il tono è quello da missione divina, l’approccio è quello del venture capital travestito da gesuita.
È qui che il gioco si fa interessante: mentre gli altri tech giant litigano su standard aperti, etica e governance, Google punta tutto sull’asimmetria informativa e l’effetto network. Chi ha in mano i modelli più avanzati, i dataset migliori e il flusso più continuo di feedback in tempo reale, costruisce l’ecosistema. Il resto si adegua. O resta fuori.
In un bar di San Francisco, uno startup guy con cappuccio e zaino da 3.000 dollari mi ha detto: “Google non compra più il futuro, lo affitta con diritto di prelazione”. Aveva ragione. Questo fondo non è solo un investimento. È una scommessa controllata su chi diventerà rilevante domani. E quando il domani arriva, Google è già lì, con le chiavi del server e il contratto da rinnovare.
Benvenuti nel capitalismo generativo. Dove l’AI non è più solo una tecnologia, ma una strategia di potere.
E dove il vero prodotto, come sempre, sei tu.