Aspettiamo. Sempre. È una delle poche cose che in Italia sappiamo fare con una certa costanza. Aspettiamo che la tecnologia “si colleghi”, che la lettura “diventi meno ricercosa”, che qualcun altro abbia già comprato prima di noi. È un paese dove l’adozione è sempre in seconda battuta, mai per convinzione, sempre per imitazione. Così si uccide l’innovazione. Non con la censura, non con la repressione. Ma con l’attesa.

Il succo dell’intro di Antonio Baldassarra CEO SeeWeb e molto altro.. che mi ha aperto come sempre la mente al convegno: “I dati tra le nuvole” organizzato dal consorzio Italia Cloud all’evento sul Cloud Italiano promosso ovviamente dal Consorzio Italia Cloud , a Palazzo Ripetta oggi a Roma.

Il punto dolente non è la mancanza di competenze. È semmai il mancato assorbimento delle competenze. Le PMI italiane non sono ignoranti per mancanza di offerta, ma per assenza di domanda strutturale. Non cercano, non investono, non formano. Perché vivono in apnea, e tutto ciò che non è fatturabile entro il trimestre diventa automaticamente superfluo. La cultura del “fare” è stata sostituita dalla gestione del galleggiamento, dove ogni decisione è filtrata dalla paura.

E paradossalmente, non sono nemmeno le piccole imprese a creare il collo di bottiglia. Sono le grandi. Quelle che dovrebbero “esplorare”, invece obbediscono. Quelle che dovrebbero tracciare la rotta, invece aspettano il via libera da qualche tavolo interfunzionale, dove il Chief Innovation Officer viene sistematicamente ignorato dal BOA (Board of Astenia). La corporate italiana è anestetizzata, privata di autonomia reale, ingessata in processi in cui il rischio è sempre male e il cambiamento è un fastidio.

Il budget c’è, ma è una trappola. Anche se disponibile, è bloccato da vincoli politici, da comitati qualità, da review che fanno sembrare il procurement un rituale burocratico da Ministero degli Interni. E allora accade l’impensabile: la parte più agile della filiera la tecnologia diventa anche la più frustrata. Lo sviluppatore con dieci anni di esperienza in AI finisce a compilare report per un POC che nessuno leggerà. Perché? Perché “così si fa”.

La cosa più ridicola, però, è sentirsi dire che “non abbiamo le competenze”. Questa è la blasfemia vera, la bestemmia laica dell’innovatore italiano. Lo senti dire da ex ministri, da opinionisti con la cravatta stretta e la mente corta. Peccato che nel frattempo centinaia di ingegneri italiani stiano scrivendo codice che gira nei datacenter di Amazon, di Facebook, di Stripe. Peccato che abbiamo cervelli che progettano sistemi distribuiti, che ottimizzano modelli di deep learning, che costruiscono software per clienti giapponesi, americani, australiani. Ma non per il cliente di Piacenza. Non per il gruppo industriale di Treviso. Lì no, lì manca la fiducia.

Allora bisogna dirlo: il problema è il mercato, non la scuola. Le università italiane, per quanto sgangherate, per quanto inadeguate sotto molti aspetti, riescono a formare talenti. Ma il sistema produttivo non li sa assorbire. Perché? Perché non vuole rischiare. Perché preferisce lamentarsi dell’assenza di capitale umano, quando in realtà c’è un’abbondanza di capitale umano sotto-utilizzato. Ma c’è di peggio.

Il vero peccato capitale è la penalizzazione regolatoria della crescita. È una cosa che ogni imprenditore sa: se cresci, diventi visibile. E se diventi visibile, sei penalizzato. Più burocrazia, più controlli, più rigidità. Il paradosso tutto italiano è che conviene restare piccoli. Conviene non scalare. Conviene restare invisibili. La crescita non è incentivata, è disincentivata. E non stiamo parlando di “mentalità” in senso astratto. Parliamo di regole scritte, di meccanismi fiscali, di vincoli strutturali che trattano l’azienda in crescita come un’anomalia da normalizzare.

E in fondo, tutto questo ha una radice sola: la sfiducia sistemica. Il mercato italiano, soprattutto quello delle grandi imprese e degli appalti pubblici, non dà fiducia. Non premia il rischio. Non valorizza il nuovo. E qui arriva la provocazione finale: se il 2023 ha dimostrato qualcosa, è che il mercato dell’impresa in Italia non è più un mercato. È diventato un campo minato, un insieme di procedure, obblighi, rituali, dove la selezione non è darwiniana ma burocratica. Si sopravvive per relazione, non per innovazione.

Il primo motore che blocca tutto è il profumo industriale, cioè quella narrazione finta e un po’ vintage dell’impresa italiana come piccola, bella, e irriducibilmente artigiana. È la nostalgia del distretto, del Made in Italy da esportazione. Ma il mondo è andato avanti. Chi non scommette sull’innovazione digitale oggi, sarà irrilevante domani. Chi continua a rifiutare la fiducia, riceverà solo indifferenza.

Serve smettere di aspettare. Di aspettare il POC. Di aspettare il via libera. Di aspettare il cambiamento altrui. Perché nel frattempo il futuro non aspetta nessuno. E mentre noi aspettiamo che il sistema “si colleghi”, altrove stanno già deployando in produzione.

Sovranità digitale, ma con i soldi degli altri: 35 miliardi di schizofrenia italiana nel cloud

Nel paese dove ci si strappa le vesti gridando “sovranità digitale!”, dove si riempiono convegni, white paper e post LinkedIn con parole come resilienza, strategicità e autonomia tecnologica, sono appena passati sotto silenzio 35 miliardi di euro di finanziamenti pubblici diretti – o meglio, serviti su un piatto d’argento ai soliti quattro nomi: AWS, Microsoft, Google, Oracle. Gli hyperscaler, come li chiamano nei documenti scritti in itanglese per mascherare l’imbarazzo.

Non ai cloud provider italiani. Non a chi, da anni, prova a costruire alternative locali, sostenibili, con architetture che rispettano vincoli normativi europei, sovranità del dato, e magari anche un po’ di decenza etica. No. Il denaro pubblico PNRR incluso finanzia chi ha già tutto: infrastruttura, market share, lobby, relazioni, “confidential computing” e data center che sembrano Disneyland.

Ma d’altronde, cosa ci aspettavamo? In Italia il cloud è diventato una grande pantomima post-coloniale, in cui a parole si proclama l’indipendenza, ma nei fatti si firma qualunque contratto pur di dire che “abbiamo fatto il piano cloud”. Un piano che, nella pratica, è un gigantesco progetto di outsourcing dell’identità tecnologica nazionale, mascherato da efficienza.

Attenzione, non si tratta di demonizzare Amazon o Microsoft. Hanno vinto perché sono migliori, più veloci, più capitalizzati. Ma la domanda è: perché dare loro anche il denaro pubblico? Perché non legare i finanziamenti a vincoli di partnership locali, a trasferimenti tecnologici veri, a partecipazioni italiane nelle infrastrutture? Perché non usare questi miliardi per costruire un vero tessuto industriale digitale?

Semplice. Perché non c’è fiducia. Né nei provider italiani, né nell’ecosistema delle startup che provano a lavorare nel cloud, né nei ricercatori che da anni propongono modelli federati, decentralizzati, sovrani. Li si guarda con sospetto, come se ogni proposta “italiana” fosse automaticamente fragile, inaffidabile, provinciale. Eppure sono gli stessi che Google e Meta assumono a pacchi, dopo che l’università pubblica italiana li ha formati con risorse risicate.

Il paradosso è perfetto: l’Italia produce competenze che alimentano la leadership USA, poi paga i leader USA con soldi pubblici per “offrire” quei servizi di cui avrebbe potuto dotarsi. È il meccanismo della dipendenza cognitiva istituzionalizzata. C’è un passaggio del pensiero coloniale che abbiamo perfettamente metabolizzato: noi siamo i buoni studenti, loro sono i padroni della tecnologia. E quindi gli va data la cattedra.

Ora provate a fare una gara per la digitalizzazione di un ministero. I requisiti saranno scritti con un linguaggio perfetto per i 4 grandi. Nessuna PMI italiana potrà competere. Non per incompetenza. Ma perché le regole del gioco sono truccate, costruite su stack proprietari, tecnologie “certificabili” solo da chi le ha inventate. È un disegno chiaro, lucido, e nemmeno troppo nascosto: spingere tutto su cloud pubblico americano, legittimato da regolatori che fanno finta di non vedere.

E i provider italiani? Si arrangiano. Fanno da subcontractor. Offrono colocation, hosting, magari qualche PaaS degno di nota. Ma nessuno li considera infrastruttura strategica. Nessuno li include nei tavoli veri, quelli da 35 miliardi. E quando provano a protestare, li zittiscono con un POC. Lo chiamano ecosistema, ma è un condominio dove i piani alti sono già stati venduti a BlackRock.

A questo punto la vera domanda è: cos’altro dobbiamo vendere per capire che la “sovranità digitale” è già una farsa? Abbiamo venduto SPID, vendiamo SAN, vendiamo l’infrastruttura e domani venderemo anche le metriche di compliance. Tutto ciò che doveva restare in casa, è stato esternalizzato. Tutto ciò che poteva essere costruito in Europa, è stato delegato a chi si presenta con tre slide e una promessa di SLA.

Ma se la tecnologia è potere, stiamo pagando per diventare sudditi. Con i soldi nostri. E con un sorrisetto da stolti digitali stampato in fronte.

Un ringraziamento sincero e doverosamente provocatori — va al convegno che ha avuto il coraggio di ospitare parole scomode, e soprattutto a Balssarra, che con lucidità chirurgica ha scoperchiato quella pentola di retorica tiepida in cui da anni cuoce a fuoco lento l’illusione della “transizione digitale italiana”.

Non è facile, in un paese dove il dibattito è spesso narcotizzato da buone maniere istituzionali e PowerPoint in Helvetica, sentire qualcuno che parla chiaro, snocciola verità scomode e lo fa senza timore di essere antipatico. Balssarra non ha solo illuminato concetti: ha incendiato certezze. Ha messo in discussione il dogma che la crescita debba avvenire per imposizione divina, che le PMI siano destinate alla marginalità, che la fiducia nel sistema si costruisca con i POC e non con il coraggio.

In un contesto dove tutti si fingono innovatori ma pochi rischiano veramente, serviva questa voce. Una voce che ci ricordasse che la tecnologia non è neutra, che il cloud non è solo una commodity, ma una questione di potere, e che la sovranità non si firma nei memorandum, si costruisce con investimenti mirati, scelte coraggiose e visione industriale.

Grazie quindi, ancora, a chi ha saputo dire tutto questo in faccia al sistema. Serviva. Serviva maledettamente.