C’era una volta un’IA che voleva salvare il mondo. Poi è arrivato SoftBank con 30 miliardi e un’idea diversa: sì, salviamo pure il mondo, ma intanto facciamo fruttare un po’ di equity. Benvenuti nella nuova fase della capitalizzazione etica, dove anche l’altruismo ha un cap table e le “public benefit corporation” vanno di moda come le startup nel 2010.
La notizia è semplice, ma il contesto è tutto tranne che lineare. SoftBank, attraverso il suo Vision Fund 2, ha già iniettato 2,2 miliardi di dollari in OpenAI, l’ex paladino del non-profit che oggi si sta trasformando in una creatura più vicina a BlackRock che a un laboratorio di ricerca accademica. Ma ehi, formalmente resta un’organizzazione a beneficio pubblico. Con un pizzico di retorica filantropica, è tutto più digeribile.
Nel frattempo, i mercati reagiscono come fanno sempre davanti ai sogni gonfiati: +1% sulle azioni SoftBank, mentre Microsoft osserva con l’aria di chi ha già messo 13 miliardi sul piatto e vorrebbe una exit che non assomigli a un litigio in tribunale tra ex soci visionari.
Sam Altman e il board di OpenAI hanno ufficializzato la transizione in “public benefit corporation”, mantenendo formalmente il controllo nelle mani del non-profit originale. Sì, perché un consiglio non-profit che controlla una società for-profit è la nuova frontiera della governance schizofrenica in salsa tech. Una struttura che fa impallidire anche i dual-class shares di Zuckerberg. Da una parte si continua a parlare di “missione per l’umanità”, dall’altra si rincorrono IPO, valorizzazioni e sindacazioni da 30 miliardi.
Nel frattempo Elon Musk, fondatore (dimenticato?) di OpenAI, si è messo di traverso come un vecchio rocker incazzato, portando la questione in tribunale. Accusa Altman e soci di aver “tradito” lo spirito originario. Un’accusa quasi mistica, se non fosse che Musk oggi guida xAI, che guarda caso fa concorrenza diretta con il suo Grok a ChatGPT. Difficile sapere dove finisce l’ideologia e dove inizia il business. Forse è tutto business, come sempre.
Dietro le quinte si gioca una partita molto più grande: il dominio del software cognitivo. SoftBank non è nuova a scommesse di questa scala. Dopo la disfatta di WeWork e le montagne russe di Arm, ora vuole il jackpot dell’IA. E per farlo è pronta a legarsi mani e piedi a una creatura che, per sopravvivere nel tempo, dovrà abbandonare ogni velleità di purezza nonprofit.
Il paradosso è servito su un piatto d’argento: la “public benefit corporation” diventa l’escamotage legale per rassicurare il pubblico e gli investitori, mantenendo nel frattempo tutto il potenziale di profitto privato. Un assetto che strizza l’occhio ai regolatori (Delaware e California già consultati, grazie mille), ma che in realtà serve a tenere insieme l’impossibile: idealismo e capitalizzazione, impatto sociale e moltiplicatori di valore.
SoftBank non fa beneficenza, nonostante la narrativa da visionari. La citazione migliore la farebbe un qualsiasi barista dopo due Negroni: “Se vuoi cambiare il mondo, prima devi comprare il mondo.” E Altman e Taylor stanno facendo esattamente questo. Controllo, sindacazione, equity distribuita ad advisor indipendenti e un piano preciso per mantenere un piede in ogni staffa, mentre la creatura cresce, diventa monopolio de facto e inizia a riscrivere l’architettura dell’informazione globale.
Nel frattempo Microsoft rinegozia i termini del suo matrimonio con OpenAI. Un contratto da 13 miliardi non si aggiorna con una call di mezz’ora. Ma l’aria è quella: nuovi termini per un rapporto che sta mutando da partner strategico a operatore critico dell’infrastruttura cognitiva mondiale. La posta in gioco non è più solo l’intelligenza artificiale, ma chi la controlla, chi ci guadagna, e chi può dire agli altri come si usa.
L’IPO? Possibile, forse inevitabile. Ma per ora resta dietro il sipario. Servirà prima chiarire le gerarchie, definire i flussi di cassa, blindare la governance. E magari, trovare il modo di neutralizzare il rumore di Musk e di chi ancora crede che un’IA possa essere “per il bene di tutti” senza uno shareholder agreement dietro.
L’idea che un’organizzazione possa essere controllata da un board non-profit ma agire come una tech company da decine di miliardi di dollari è l’ultimo atto di una lunga deriva ideologica della Silicon Valley. Dove ormai anche le buone intenzioni hanno un term sheet.
E se SoftBank oggi si dice “entusiasta della trasformazione”, non è certo per l’impatto sulle comunità svantaggiate, ma perché sa leggere meglio di chiunque altro i flussi del capitale. E capisce che chi controlla l’IA non solo fa soldi, ma riscrive le regole del gioco. Anche quelle della democrazia.
Nel mondo dell’intelligenza artificiale, il profitto non è più una conseguenza. È la missione. Tutto il resto è storytelling.