Se pensavi che la Silicon Valley avesse già raggiunto l’apice del delirio tecno-ottimista, siediti e preparati a essere smentito. OpenAI ha sponsorizzato un “esperimento” per dimostrare che vibe coding—ovvero la programmazione guidata dal “vibrare interiore”—non è solo l’ennesima buzzword generata da un keynote di un venticinquenne in felpa Patagonia, ma una “rivoluzione” nel mondo del software. O così ci dicono.

La keyword principale, chiariamolo subito, è vibe coding. Le secondarie? Emozione artificiale e sviluppo no-code. Tutto impacchettato in una narrativa perfetta per il nuovo SEO generativo: scrolli, ti fermi, ridi, scuoti la testa, poi condividi indignato su Threads.

Lo scenario: 120 non-ingegneri, dichiaratamente “scarsi in matematica” (dichiarazione giurata, pare), sono stati messi davanti a strumenti di vibe coding con l’obiettivo di costruire applicazioni. In parallelo, 120 scimmie armate di martelli di gomma hanno tentato di costruire una casa a Palo Alto. Spoiler: non ce l’ha fatta nessuno, ma pare sia andato tutto alla grande.

Ora, fermiamoci un attimo. Questo è il punto in cui normalmente un qualsiasi report tecnico farebbe un grafico a barre o almeno un bullet point. Ma noi no. Noi stiamo parlando di vibe. E il vibe non si quantifica, si sente. Si respira.

L’unica vera “app” uscita dall’esperimento umano è stata un prototipo click-through che, nella migliore delle ipotesi, avrebbe potuto essere un wireframe sbagliato disegnato da un designer che si è infiltrato con Figma. Nulla funziona davvero, ma che stile! Il colore? Morandi meets Apple. I pulsanti? Tutti rotondi. L’usabilità? Boh. Ma vuoi mettere che “ispira”?

Nel frattempo, le scimmie—che inizialmente sembravano solo una metafora, ma no, erano vere scimmie—dopo essersi fracassate le dita con i martelli di gomma, sono state dotate di martelli veri. E poi, forse in un momento di massima illuminazione gestionale, qualcuno ha proposto di dar loro chiodatrici pneumatiche. E tu che pensavi che le demo con ChatGPT fossero già al limite della distopia.

Ma attenzione: questa non è solo una parodia grottesca. È l’emblema perfetto della nuova era del software. Dove il codice è secondario, e il sentire è tutto. Dove l’importante non è che l’app funzioni, ma che l’utente si commuova al primo tap. Dove se ti chiedono “ma funziona?”, puoi rispondere: “non ancora, ma ti fa venire voglia che funzioni”.

Uno degli esperti coinvolti (probabilmente un consulente vestito da skater quarantenne) ha dichiarato che “questo è il futuro dello sviluppo software: emozione-driven, istintivo, accessibile”. In altre parole: basta con la logica. L’IDE ora è il tuo gut feeling.

E in fondo, cosa c’è di più disruptive che eliminare gli ingegneri dal ciclo produttivo del software? Troppo razionali, troppo metodici. Non abbastanza “vibey”. Serve gente che sente il codice, anche se non lo scrive. Lo immagina. Lo visualizza. Lo balla.

Nel frattempo, su LinkedIn, è già partita la corsa al branding: “vibe engineer”, “empathy-driven coder”, “UX-shaman”. Tutti ti dicono che “se non usi vibe coding, sei il problema”. Una nuova religione è nata, e come ogni culto che si rispetti, ha la sua iconografia (emoji, gradienti rosa-malva, screenshot di prompt) e i suoi martiri (i poveri dev vecchia scuola, che ancora usano le parentesi graffe e leggono RFC).

Ironia della sorte, le uniche entità che hanno realmente prodotto qualcosa nell’esperimento sono state le scimmie. Non una casa, certo, ma un bel casino. E come sanno tutti gli acceleratori pre-seed della Bay Area, chaos is innovation in disguise. D’altra parte, anche la cultura bro-maschile delle startup è stata descritta come “caotica ma necessaria”. Le botte tra scimmie? “Team dynamics”. I martelli? “Tooling”. Il sangue? “Stakeholder friction”.

Alla fine dei conti, il vibe coding non è uno strumento, ma una narrazione. È il sogno umido di chi vuole democratizzare il software senza passare dalle forche caudine dell’algoritmica. Un sogno vendibile, confezionabile, perfetto per i pitch. Funziona? Non importa. Fa parlare? Sì.

E questo, nel mercato della vanità digitale, vale molto di più del debugging.

Hai già aggiornato il tuo profilo LinkedIn? Perché “Senior Backend Engineer” suona molto 2016. Meglio “Sentient App Whisperer” o “Code Vibes Evangelist”.

La rivoluzione è arrivata. È sgangherata, delirante, a tratti pericolosa. Ma senti che vibe.