Un papa americano contro l’economia predatoria: benvenuti nell’era di Leone XIV
Roma, 2025. Inizia con un gesto semplice ma dirompente: il nuovo papa americano, Robert Francis Prevost ora Leone XIV sale sulla papamobile e sorride. Sembra poco, ma quel sorriso sbarazzino di un ex missionario del Perù diventato capo della Chiesa cattolica è già un segnale: cambierà tutto. O almeno ci proverà, mentre osserva dall’alto una piazza San Pietro colma come non accadeva da anni, con 200.000 persone stipate come sardine per assistere a un evento storico. Il primo papa yankee nella storia. E non uno qualunque: un gesuita 2.0 che ha già il vizio di criticare i potenti. Pure quelli di casa sua.
La parola chiave è natura, seguita a ruota da poveri e giustizia sociale. E già qui i borsisti di Wall Street hanno smesso di sorridere. Alla sua prima omelia pubblica, Leone XIV parla con la voce pacata di un uomo che ha vissuto nella polvere delle missioni peruviane ma lancia una bomba sotto i piedi del capitalismo estrattivo. Un attacco frontale, senza scuse né diplomazia, al paradigma economico che “sfrutta le risorse della Terra e marginalizza i più poveri”. Amen.
Non è solo greenwashing ecclesiastico. È una dichiarazione di guerra spirituale a quel sistema che ha trasformato il pianeta in un supermercato e i popoli in manodopera usa e getta. Un messaggio che, detto dal balcone di San Pietro, ha il peso di un’enciclica e la potenza mediatica di un meme virale. Google SGE ne andrà ghiotto.
Ma Leone non si limita al cliché ecologista. Il suo è un attacco multilivello. Parla di “discordie”, di “odio”, di “pregiudizi”, di “paura della differenza”. Un’ecumenica invettiva contro il tribalismo moderno, quel fenomeno tanto amato dai social quanto tossico per ogni forma di coesistenza. In un’epoca in cui ci si chiude in bolle autoreferenziali tra criptomani, antivax, sovranisti, woke e ogni altra tribù digitale il nuovo papa invita ad aprire, mescolare, contaminare. Roba che farebbe impallidire gli algoritmi di YouTube.

A chi storce il naso per il passaporto a stelle e strisce del pontefice, risponde con un gesto tanto teatrale quanto simbolico: incontra Zelensky in privato dopo aver pregato per la “martoriata Ucraina” e l’urgenza di una pace giusta. Ma non dimentica di stringere la mano a J.D. Vance, il vicepresidente americano che solo qualche anno fa aveva attaccato per le sue politiche migratorie. E Vance, da buon neocon convertito al cattolicesimo nel 2019, incassa con stile e si dichiara “orgoglioso”. Le giravolte della fede.

C’è chi lo accoglie come il Messia del XXI secolo, tipo la mia amica pellegrina entusiasta che lo vede “l’uomo giusto al momento giusto”. C’è chi, più cinicamente, nota che ora gli Stati Uniti hanno il Papa, oltre che la NATO, il dollaro e Netflix. Per chi crede ancora che il Vaticano sia un’entità sopra le parti, questa è una dissonanza difficile da digerire. Il Papa americano. Suona come il titolo di una serie HBO.
Eppure Robert pardon, Papa Leone non si presenta come il rappresentante di una superpotenza spirituale. Lo dice chiaramente, con parole che sembrano tratte da una poesia di Gibran e un disclaimer legale: “Sono stato scelto senza alcun merito. Con timore e tremore, vengo a voi come fratello”. Dietro la retorica, si intravede una consapevolezza nuova. Sa di essere un outsider. È stato fatto cardinale nel 2023, praticamente ieri. Non è parte dell’apparato vaticano. Non ha clienti da accontentare, né segreti da nascondere. È un’anomalia in una Curia che vive ancora nell’eco del Concilio.
Ecco allora che riceve il pallio e l’anello del pescatore, simboli della sua nuova funzione, con la compostezza di chi sa che quel potere va esercitato più come una servitù che come una regalità. E intanto abbraccia il fratello Louis, in un gesto umanissimo che spiazza gli astanti e manda in tilt il protocollo. È teatro spirituale, certo. Ma funziona.
I media americani, intanto, impazziscono. Lo celebrano, lo rivendicano, lo spettacolarizzano. Ma Leone non ci sta. Non vuole essere il Papa degli Stati Uniti. È cittadino peruviano onorario, conosce le baraccopoli di Lima meglio dei corridoi del Congresso. E questo lo rende ancora più pericoloso. Perché conosce entrambi i mondi. E può parlare a entrambi con la stessa autorità.
Il suo stile? Più vicino a Francesco che a Benedetto, ma senza la dolcezza poetica del primo né la rigidità teologica del secondo. È pragmatico. Parla per immagini, ma dietro ogni parola si intravede la struttura ferrea di una visione. “Costruire ponti, abbattere muri”. Roba da slogan aziendale. Ma stavolta detto da uno che ci crede davvero.
E così ci ritroviamo con un Papa che potrebbe citare Laudato Si’ e al tempo stesso una canzone di Bob Dylan. Che può parlare di ecologia integrale senza fare l’occhiolino al capitalismo verde. Che si fa carico delle piaghe della Chiesa gli scandali, l’arretratezza dottrinale, la fuga dei fedeli ma non per salvare l’istituzione, bensì per rianimare l’anima. Come se fosse ancora possibile.
Forse non cambierà il mondo. Forse non cambierà nemmeno la Chiesa. Ma ha già cambiato la narrativa. E questo, nell’era della percezione permanente, è l’inizio di ogni rivoluzione.
Come ha detto un barista romano a un cliente stamattina, mentre sullo schermo scorrevano le immagini di Leone sulla papamobile: “Almeno questo c’ha la faccia de uno che ce crede. Vedemo quanto dura”.
Ecco, vedremo. Ma intanto, qualcosa è già successo.