Nel teatrino digitale chiamato Google I/O, dove ogni anno si spaccia il futuro come progresso inevitabile, è andato in scena l’ennesimo colpo di mano ai danni dei produttori di contenuti: l’introduzione su larga scala della famigerata AI Mode la nuova interfaccia chatbot-style che sostituisce la ricerca classica con un blob generativo infarcito di “risposte intelligenti”. La parola chiave è: risposte, non link. Tradotto: meno click ai siti, più tempo dentro Google.
Così il motore di ricerca più potente del mondo si trasforma definitivamente in un recinto. Non ti porta più da nessuna parte, ti tiene dentro, ti mastica e poi ti sputa addosso una sintesi addestrata sui contenuti di altri. Magari i tuoi.
Il punto non è se funzioni o no. Funziona. Ma a vantaggio di chi? Sicuramente non dell’ecosistema editoriale. Anzi, diciamolo senza filtri: l’AI Mode è l’equivalente digitale di un aspirapolvere industriale che risucchia contenuti creati da giornalisti, redazioni, freelance, opinionisti, e li trasforma in pappa semidigerita a zero valore per chi quei contenuti li ha generati.

“I link erano l’ultima qualità redimente della ricerca”: è una frase che non avresti mai immaginato di leggere da una lobby americana dei media, eppure eccola qui. Firmata Danielle Coffey, CEO della News/Media Alliance. Non è un’esagerazione: i link erano l’ultima linea del fronte, l’ultimo scambio di valore. Ora? Spariti o marginali, sepolti sotto le allucinazioni algoritmiche di Gemini o qualunque altro LLM Google voglia piazzare tra te e ciò che stai cercando.
E non venite a raccontarci la favoletta dell’”esperienza utente migliorata”: questa è disintermediazione mascherata da innovazione. L’utente non esplora più, non naviga più, non scopre più. Chiede e riceve, come in una catena di montaggio cognitiva, confezionata per tenerti dentro al giardino recintato di Mountain View.
Questa non è evoluzione. È colonialismo digitale.
Il meccanismo è semplice. Google indicizza i contenuti dei publisher, li utilizza per addestrare il suo modello e poi li restituisce in forma aggregata, senza passare dai link che portavano traffico (e quindi pubblicità, iscrizioni, abbonamenti, cioè vita) ai siti originali. Un’appropriazione sistematica, lucida, iper-efficiente. E il bello è che non puoi nemmeno scegliere se farne parte o no. Vuoi rifiutare che i tuoi contenuti vengano inclusi nel gioco sporco della generazione AI? Perfetto, allora devi uscire completamente dalla Search, da tutto. Una pistola sul tavolo. O tutto, o niente.
“Il furto è servito”, parafrasando Coffey.
E qui casca l’asino, o meglio: ci caschiamo noi. Perché questo è un sistema perfettamente consapevole, pensato per cementare il controllo totale del flusso informativo globale. Un’egemonia tecnolinguistica in cui il contenuto originale perde senso, e il derivato sintetico prende il sopravvento. Con un unico beneficiario: Google.
Ironia della sorte? La testimonianza di Liz Reid, capo di Google Search, davanti al Congresso, svela l’assurdo. Consentire ai publisher di scegliere “voglio essere in questa feature ma non in quell’altra” sarebbe troppo complicato per i sistemi. E quindi? Soluzione: nessuna scelta. Troppo difficile adattare i modelli a un ecosistema variegato, quindi meglio imporre una soluzione univoca. Un po’ come dire che è troppo difficile rispettare i diritti di proprietà, quindi si decide che non esistono.
Ci siamo arrivati: siamo al punto in cui la complessità tecnica diventa giustificazione morale per l’assenza di consenso. Un modello di efficienza tirannica.
Naturalmente, in questa partita, le redazioni locali, gli indipendenti, le testate specializzate sono le prime vittime. Quelle che non hanno risorse per negoziare o per far causa, e che dipendono dalla visibilità su Google come un malato terminale dalla flebo. E la trappola è ancora più raffinata: se spariscono i click, sparisce la pubblicità. Se sparisce la pubblicità, sparisce il giornale. Se sparisce il giornale, sparisce la fonte. Ma la macchina generativa continua a produrre. Basandosi su cosa? Su contenuti sempre più obsoleti, frammentati, autoplagiati. Il ciclo si chiude. Google diventa la fonte e la destinazione.
C’è un che di poetico, in questa apocalisse lenta. Un’era in cui la tecnologia ha promesso di democratizzare l’informazione e invece la concentra. Un motore di ricerca che non cerca più, ma decide. Un algoritmo che scrive articoli senza mai vivere il mondo reale da cui li estrapola.
Barzelletta da bar, ma mica tanto: “Un editore entra in un bar, chiede a Google di smettere di rubargli i contenuti. Google gli risponde con una risposta generata da quegli stessi contenuti. E gli presenta il conto.”
La vera domanda è: cosa fanno ora i legislatori, le autorità antitrust, i tribunali? Perché la questione non è solo economica, è culturale. Non si tratta più solo di soldi, ma di controllo epistemico. Chi decide cosa è vero? Chi possiede il sapere? Chi lo redistribuisce?
Certo, l’AI Mode è il futuro della search, dicono da Google. Ma a quale costo? Forse siamo davvero entrati nell’era in cui la conoscenza è gratuita solo per chi la ruba.