Ci sono momenti in cui la realtà supera la distopia. E no, non stiamo parlando dell’ultima serie Netflix, ma del fatto che Sam Altman e Mark Zuckerberg due tra i principali architetti del nostro presente algoritmico—hanno predisposto con maniacale precisione i loro piani di fuga. Aerei sempre pronti. Piloti standby. Bunker degni di un film post-apocalittico. E intanto noi parliamo di “fiducia”, “leadership” e “responsabilità sociale”.
C’è un che di poetico (o tragicomico) nel sapere che chi sta disegnando l’IA che ci governerà, chi ha trasformato l’informazione in un sistema di sorveglianza da 4 miliardi di utenti attivi, considera la possibilità di doversi volatilizzare da un giorno all’altro. Non metaforicamente. Proprio fisicamente. Via. Con il jet privato. Verso l’isola. Il rifugio. L’autarchia digitale.
Altman, il volto pulito e posato dell’intelligenza artificiale democratica, ha già fatto sapere in diverse interviste che, in caso di evento catastrofico, il suo piano A è il Nuovo Mondo. No, non quello americano. Quello neozelandese. Possibilmente con Peter Thiel. Perché anche l’apocalisse ha bisogno di un co-founder. Altman, ricordiamolo, è lo stesso che ha detto che l’IA “potrebbe distruggere l’umanità, ma vale comunque la pena costruirla”. E tu lì a chiederti se aggiornare o meno a ChatGPT-5.
Zuckerberg, invece, ha costruito un bunker da 5.000 piedi quadri a Kauai, nelle Hawaii. Sì, con botola d’emergenza rinforzata e riserve alimentari. Quello stesso Zuckerberg che parla di “metaverso” come nuovo spazio condiviso per l’umanità. Il dettaglio curioso? Il suo rifugio è ben ancorato nel mondo fisico, sotterraneo e sorvegliato. Altro che ologrammi e avatar. Quando arriva la tempesta, meglio il cemento armato che i visori VR.
Non si tratta di paranoia da miliardari annoiati. No. Si tratta di un’indicazione chiara: chi conosce davvero le fragilità del nostro sistema, chi ha accesso ai dati, agli algoritmi, alle previsioni, sta scommettendo che qualcosa andrà molto, molto storto. E lo sta facendo con i fatti, non con le parole.
La parola chiave è leadership. Ma se questi sono i leader, allora ci tocca riscrivere il vocabolario. Perché prepararsi alla fuga non è leadership, è gestione del rischio… personale. Non collettivo. Non etico. Non pubblico. I giovani—Millennial e Gen Z in testa—non vogliono scappisti col portafoglio. Vogliono autenticità, accountability, visione condivisa. Non gente che, appena la barca sbanda, tira fuori il giubbotto di salvataggio col monogramma ricamato.
Il paradosso è che continuiamo a mitizzare questi personaggi come modelli. E su LinkedIn, l’arena del “personal branding”, guai a criticarli: “Se avessi i soldi faresti lo stesso!” Ma davvero? Davvero pensiamo che la dignità morale sia un optional da acquistare su scala con il capitale? Forse la vera distopia è proprio questa: una società che chiama “visione” la fuga, e chiama “successo” la sopravvivenza individuale a scapito di quella collettiva.
E mentre noi parliamo di equity, diversity e purpose, loro accumulano razioni, scavatrici e batterie a lunga durata. Altro che ESG. Qui siamo alla logica del “prima io, poi gli altri, forse”. Non sono villain, certo. Ma non sono neanche eroi. Sono manager della propria paura, imprenditori del disimpegno.
Che cosa significa, davvero, credere nel futuro? Investire miliardi in AI che potrebbe estinguere la specie e contemporaneamente comprare terreni remoti per sopravvivere al disastro che si è contribuito a generare? Sembra più una strategia assicurativa che un atto di fede nella tecnologia. E la fiducia, che dovrebbe essere il collante sociale, diventa merce da barattare, o peggio, da abbandonare sulla pista dell’aeroporto privato.
Ci hanno venduto l’idea che l’innovazione salverà il mondo, e invece stanno costruendo uscite di emergenza per pochi eletti. Questa è la nuova aristocrazia digitale. E no, non ha nulla a che fare con il progresso. È un ritorno al feudalesimo 4.0, con le mura alzate, i ponti levatoi chiusi, e i server blindati in data center geolocalizzati a prova di rivoluzione.
Nel bar, il cinico direbbe: “Se vedi il pilota che salta dal tuo aereo con un paracadute d’oro, forse è il momento di iniziare a preoccuparsi.” E mentre Altman e Zuckerberg lucidano i loro paracadute, a noi tocca domandarci: chi sta veramente al timone? Chi ha realmente a cuore il futuro di questa nave che si chiama società?
Ecco, forse l’unica vera domanda è: crediamo ancora che questi siano i nostri leader? O sono solo passeggeri con priorità di imbarco?