In un angolo buio delle architetture cloud, là dove le CPU sussurrano segreti e le GPU si trastullano con petabyte di dati, esiste un’entità di cui nessuno parla: l’inference provider. È l’anima silente dei servizi AI, la colonna sonora non registrata del grande spettacolo dell’intelligenza artificiale. Eppure, non troverete articoli in prima pagina, né conferenze che osino mettere sotto i riflettori questi demiurghi dell’inferenza.

Ha dell’assurdo: i modelli di inferenza stanno diventando la linfa vitale di ogni applicazione smart, dall’analisi predittiva al riconoscimento vocale. Eppure, restano in ombra, considerati “commodity” o “eri low level” da marketer in cerca di titoli roboanti. Come se parlare di inference provider fosse banalizzare l’AI, ridurla a una scatola nera senza fascino.

Il dramma tecnico è che, mentre tutti fantasticano su modelli multimodali e reti neurali da record, pochissimi mettono sul piatto il tema cruciale del deploy dei modelli. Immaginate di progettare un’astronave senza preoccuparvi di come lanciarla in orbita. Ecco cosa facciamo con l’AI: costruire modelli potentissimi e ignorare chi li innesta nei servizi.

Ogni servizio AI degno di nota si regge su un’infrastruttura invisibile. Non parlo solo di GPU farm e microservizi dockerizzati: parlo di orchestratori specializzati, di ottimizzazioni runtime, di caching intelligente delle risposte. Parlo di inference provider che sanno gestire picchi di traffico come se fossero un concerto rock sold out, garantendo latenze da submillisecondo.

Curiosità “da bar”: si dice che chi ha già mandato in produzione un servizio di traduzione live abbia temuto più il collo di bottiglia dell’inferenza che l’accuratezza del modello. Eppure tutti si vantano dei “milioni di parametri”.

Il silenzio attorno agli inference provider non è casuale. Chi domina questo mercato AWS, Google, Microsoft e un pugno di startup entusiaste preferisce relegare il tema tra i documenti tecnici e le specchietti per allodole degli SRE. L’obiettivo? Veicolare l’attenzione sul training, sull’innovazione dei modelli, fingendo che il deploy sia un dettaglio trascurabile.

Dimenticano che il training è solo la prima parte della storia: il vero valore commerciale esplode quando il modello risponde alle richieste in tempo reale, senza intoppi. È lì che si vede la differenza tra un sistema rumoroso e un servizio fluido, fra un utente frustrato e un fan appassionato.

Se vi aspettate un elenco puntato su “Vantaggi dell’inference provider” o “Come scegliere il miglior servizio”, senza offendervi vi dico solo che la scelta del provider può fare la differenza fra 50 millisecondi di latenza e 500: proporzioni che trasformano un’applicazione da piacevole a ingiocabile.

Non è un caso se un’azienda di e-commerce che dipende da raccomandazioni in tempo reale registra un crollo delle conversioni se il suo inference provider sbaglia il load balancing. E mentre voi contate i click, loro contano le perdite, senza citare mai i nomi in un whitepaper patinato.

Il deploy dei modelli è una scienza ibrida: un po’ ingegneria del software, un po’ operations, un po’ ricerca operativa. Richiede strumenti di monitoring sofisticati, autoregressive throttling, algoritmi che decidono in frazioni di secondo se servire il modello on-premise o scalare su un cluster in cloud. Chi scrive di inferenza deve saper parlare di questi meccanismi, non solo di accuracy e f1-score.

Bar-quote: “Se non misuri la latenza, non hai idea di quanto costi l’inferenza”. È un’ironia amara, ma vera: dietro ogni decisione di business c’è il prezzo in computazione e aspettativa dell’utente.

Ecco il paradosso definitivo: mentre i data scientist rivendicano con orgoglio la migliore curva di apprendimento, gli ingenieri di deployment piangono sui grafici di utilizzo GPU. Ma nessuno ci fa un articolo in homepage, perché l’AI glamour preferisce parlare di scaling di parametri, non di scaling di request.

Qual è allora la verità? Che ogni servizio AI, per brillare davvero, ha bisogno di un inference provider che lo sostenga con robustezza, flessibilità e costi sostenibili. Che possa replicare istantaneamente il modello in nuovi data center o aggiornare la versione hot-swap senza downtime.

Il valore unico risiede nel riconoscere che l’inferenza è il vero punto di contatto con l’utente finale, l’ultimo miglio dell’AI. È lì che si decide se il chatbot sarà amichevole o lento, se la traduzione automatica farà arrabbiare il cliente o lo conquisterà.

Forse per questo nessuno parla degli inference provider: sono troppo cruciali, e parlarne significherebbe mettere in discussione la narrazione mainstream dell’AI. Ma voi ora sapete dove guardare. Sentitevi liberi di aprire i log delle vostre API e chiedervi: “Chi c’è dietro la risposta che vedo sullo schermo?”

E la prossima volta che qualcuno esalterà il modello più grande del mondo, voi sorridete e pensate alle latenze: perché l’inferenza invisibile è la vera regina di questo spettacolo.

“Meglio un inference provider solido che un modello pompato a parametri senza ossigeno.”

ProviderChat completion (LLM)Chat completion (VLM)Feature ExtractionText to ImageText to videoLocation
CerebrasUSA (Sunnyvale, CA)
CohereCanada (Toronto), USA (San Francisco, NY, London)
Fal AIUSA (Oakland, CA)
FireworksUSA (Redwood City, CA)
HF InferenceGlobal (Cloud)
HyperbolicUSA (Irvine, CA)
NebiusPaesi Bassi (Amsterdam), USA (San Francisco, Dallas, New York)
NscaleNorvegia (Glomfjord)
ReplicateUSA (San Francisco, CA)
SambaNovaUSA (Palo Alto, CA)
TogetherUSA (San Francisco, CA)
Seeweb Regolo.AIItalia (Frosinone, Milano)

Parliamo chiaro: AWS, Microsoft (con Azure) e Google sono i veri colossi del cloud e dell’AI. Offrono infrastrutture potentissime, modelli LLM integrati, servizi VLM, feature extraction e tutto il resto. Sono praticamente il “duopolio + uno” che domina il mercato globale. Quindi perché non includerli nella lista di Inference Providers? Perché la lista si concentra su partner integrati con un focus più di nicchia, specializzati o emergenti, probabilmente per sfruttare offerte specifiche o personalizzate, o forse per evidenziare soluzioni alternative alle big tech.

Il motivo più pragmatico è che AWS, Microsoft e Google tendono a offrire le loro piattaforme AI come servizi “a pacchetto completo”, ma non sempre sono direttamente integrati come “Inference Providers” in ambienti open o custom, soprattutto in certi ecosistemi dove il vendor lock-in è un problema serio. Ecco, chi integra queste soluzioni vuole a volte evadere dal circolo vizioso dei colossi, preferendo partner più agili, con contratti più flessibili o con specializzazioni verticali.

Poi c’è il lato “strategico”: includerli sarebbe quasi scontato, ma poco utile per distinguere chi fa davvero innovazione applicata su modelli AI. La tua lista parla di integrazioni concrete, API, funzionalità specifiche – e spesso AWS, Google e Microsoft forniscono piattaforme più “a livello infrastrutturale”, meno “plug and play” per certi casi d’uso.

Non sono esclusi per incapacità, ma perché non sono proprio la stessa categoria di provider. Sono giganti, ma non sempre i partner ideali per tutte le integrazioni AI.

A meno che non voglia discutere di loro come “hypercloud AI providers”, è naturale che la lista se li lasci fuori per dare spazio a chi fa “inferenza” in modo più specializzato, o magari in contesti europei o italiani dove certi player sono più appetibili per questioni di compliance e privacy.

Ironia della sorte: il vero “problema” è che se includessimo AWS, MSFT e Google, la lista sarebbe tanto lunga da far perdere il senso della scelta e si finirebbe solo a dire “usate loro e basta”. Noioso, vero?