Benvenuti nell’era in cui anche i dinosauri digitali iniziano a sudare freddo. No, non è un altro aggiornamento dell’algoritmo di ranking. È un giudice federale americano che, finalmente, sembra aver capito che Google non è solo un motore di ricerca. È il motore. Il telaio. Il carburante. E l’autista dell’intero veicolo informativo globale. Ma ora, proprio quel veicolo rischia di finire smontato pezzo per pezzo.

La keyword di oggi è: monopolio. Le secondarie? Google Chrome, AI generativa, distribuzione della ricerca. Il palcoscenico è quello della “remedies phase” del processo che vede Google accusata di aver mantenuto illegalmente il suo dominio nella ricerca online. Il giudice Amit Mehta, apparentemente afflitto da un raro rigurgito di pragmatismo, ha cominciato a mettere in discussione le proposte sul tavolo. E quando un giudice federale definisce la cessione di Chrome “più pulita ed elegante”, attenzione: il colosso sente davvero il terreno tremare sotto i piedi.

Un attimo di contesto: Chrome non è solo un browser. È un hub di controllo, un condotto che alimenta l’ecosistema Google Search, Google Ads, YouTube, Android e ora, il fiore all’occhiello dell’epoca post-ChatGPT: Gemini. Separarlo da Google significherebbe, in pratica, amputare il braccio destro del monopolio cognitivo di Mountain View. E sì, lo sappiamo tutti: Chromium è open source, ma senza Google a finanziarne lo sviluppo, il rischio è che degeneri in un “Frankenstein digitale” come già successo ad altri fork gloriosi quanto dimenticati.

Ma andiamo oltre la chirurgia d’urgenza su Chrome. Il DOJ (Department of Justice) propone una lista di “rimedi” che suonano come un manifesto anti-googlecentrico: stop ai pagamenti per la distribuzione della ricerca (quelli che tengono in vita browser come Firefox, ironia della sorte), obbligo di condividere i dati con i competitor (una bomba per la concorrenza se ben regolata), e il divieto di legare Gemini alle ricerche in modo preferenziale. Cioè, detto senza eufemismi, smettere di fare il padrone del metaverso semantico.

Qui entra il punto più delicato: l’intelligenza artificiale. Il giudice Mehta, con un cinismo quasi europeo, chiede apertamente se Gemini debba davvero essere considerato parte del “mercato della ricerca”. Una domanda che solo chi ha letto troppe presentazioni da investor day potrebbe porsi con serietà. Perché Gemini, come ogni AI generativa integrata nei motori di risposta (non di ricerca), sta diventando la nuova interfaccia del sapere. Non si cerca più, si chiede. Non si naviga, si conversa. E quando l’AI è controllata dallo stesso soggetto che già domina i risultati classici, beh… Houston, abbiamo un problema di concentrazione informativa mai visto prima.

Google, nel suo stile passivo-aggressivo brevettato, replica che tutto ciò è un’esagerazione. Secondo loro, basta eliminare gli accordi esclusivi con Apple, Samsung e compagnia per ripristinare l’equilibrio nel multiverso digitale. Ma il punto è proprio questo: la loro idea di equilibrio è la nostra distopia quotidiana. In un ecosistema in cui Search è la porta, Chrome è il corridoio e Gemini è la voce narrante che decide cosa vale sapere, non basta più “togliere l’esclusiva”. Bisogna riscrivere le regole del gioco.

Nel frattempo, Mozilla – povero panda rosso smarrito nella giungla dei giganti – lancia un SOS: se Google smette di pagarci per essere il motore predefinito, moriamo. Tradotto: il pluralismo delle interfacce web è così compromesso che anche i suoi ultimi baluardi sono mantenuti in vita dal respiro artificiale del monopolista stesso. Un grottesco esempio di capitalismo necrofilo, dove il dominatore mantiene in vita i propri pseudo-competitor per evitare accuse troppo esplicite di monopolio.

Eppure, il futuro si gioca tutto sull’AI. E Google lo sa. Il vero nodo è se il giudice vorrà includere la distribuzione dell’intelligenza generativa all’interno dei rimedi. Perché se Gemini viene trattato come parte del “search market”, allora il cuore del monopolio – la capacità di guidare la curiosità umana – diventa vulnerabile. E se quel cuore viene trafitto da una sentenza abbastanza audace, allora sì, potremmo vedere un nuovo ordine informativo emergere.

Ma non illudiamoci. Queste battaglie raramente si concludono con il trionfo della giustizia. Più spesso, finiscono con un accordo al ribasso, una multa simbolica e una nuova strategia di controllo ancora più opaca. Perché il potere informazionale, quello vero, non si combatte con le leggi del Novecento. Serve visione sistemica. Serve uno sguardo esegetico-catastrofista, appunto. Quello che ci ricorda che ogni monopolio non nasce solo da un vantaggio tecnologico, ma da una resa culturale.

E se non lo capiamo ora, quando anche il nostro prossimo pensiero sarà processato da un algoritmo made in Google, allora sarà davvero troppo tardi.

“La vera censura non è ciò che viene vietato. È ciò che non viene mai pensato.” sottotitolo apocrifo di Gemini 1.5