Chi pensa che $500 milioni in dieci anni siano una vera punizione per Alphabet dovrebbe prendersi un caffè più forte. È il costo di un paio di campagne marketing mal riuscite o di un aggiornamento di Android andato storto. Ma questa non è la parte più interessante della storia.

La notizia è che Google, colosso tra i colossi, ha deciso di risolvere un’azione legale dei suoi stessi azionisti pension fund del Michigan e della Pennsylvania, mica hacker ucraini che l’accusavano di averli esposti a rischi antitrust. E attenzione, non stiamo parlando delle cause del DOJ (Department of Justice), quelle sulle pratiche monopolistiche nella search e nell’adtech, dove Washington ha messo i tacchi a spillo. No, qui si parla di un’altra arena: la responsabilità fiduciaria verso gli azionisti.

Il patto stretto con la benedizione (ancora da firmare) di un giudice federale californiano prevede la creazione di nuovi comitati di conformità uno a livello di consiglio, altri a livello operativo. Ma, spoiler: questi comitati non avranno i denti di un regolatore, né l’indipendenza di un watchdog esterno. Avranno però PowerPoint, resoconti trimestrali e la possibilità di archiviare pdf.

Google, ovviamente, ha dichiarato che lo fa “per evitare un contenzioso prolungato”. Traduzione: non vogliamo che questa causa diventi un altro megafono per i detrattori, specialmente ora che stiamo combattendo due guerre legali su fronti ben più pericolosi. E con l’Intelligenza Artificiale generativa che cambia le regole del gioco, Big G non può permettersi il lusso di apparire vulnerabile agli occhi del mercato.

Per chi mastica corporate governance, l’accusa è interessante: non che Google abbia semplicemente violato la legge antitrust, ma che il board quindi Sundar Pichai & friends abbia ignorato consapevolmente i segnali di rischio, continuando a operare in modo da “minare” il valore per gli azionisti. Insomma, una colpa non tecnica, ma morale. Una dimenticanza più vicina al peccato originale che alla negligenza.

C’è qualcosa di quasi kafkiano nel fatto che i fondi pensione, custodi dell’interesse collettivo dei risparmiatori americani, debbano denunciare una delle aziende più ricche del mondo per dire: “Ehi, se fate i furbi col governo, è il nostro portafoglio a soffrire”. Un capitalismo che si denuncia da solo, con un cinismo degno di un romanzo di Don DeLillo.

Sul fronte delle implicazioni reali, non illudiamoci: nessuno sta immaginando un cambio strutturale nel comportamento di Alphabet. Questi nuovi comitati sono una cintura di sicurezza a posteriori. L’auto ha già fatto il testacoda, i passeggeri sono ancora vivi, e ora si installano gli airbag. Ma chi guida è sempre lo stesso.

La parola chiave qui è antitrust, ma le secondarie compliance e responsabilità fiduciaria sono quelle che fanno tremare i polsi a Wall Street. Perché se l’argomento diventa sistemico, e i board delle big tech iniziano a essere considerati corresponsabili a monte di strategie aggressive, allora cambiano le metriche di valutazione, le assicurazioni direzionali salgono, e il bonus annuo scende.

Non è un caso che Alphabet abbia deciso di piegare la testa proprio ora. Le AI generative stanno rimescolando il mazzo e Google, con Gemini che arranca dietro a GPT, non può permettersi altri fronti aperti. Perdere fiducia interna o esterna è come bucare una barca in mezzo alla traversata. L’apparenza di legalità vale più della legalità stessa.

Curioso come, nella Silicon Valley, il concetto di “etica” entri nei bilanci solo quando diventa una voce di costo. Fino a quel momento è solo un workshop del venerdì.

In tutto questo, rimane una certezza: i veri processi che contano non sono in tribunale, ma nelle aule dei consigli d’amministrazione, dove si decidono le policy narrative che diventano poi comunicati stampa. E dove anche le sconfitte si possono trasformare in storytelling.

“La compliance è il nuovo marketing”, mi disse una volta un consulente Deloitte in giacca perfettamente stirata al Bar dei Daini.

Aveva ragione.