Sembrava una battaglia culturale. È diventata un assalto istituzionale. In un proclama dai toni apocalittici – firmato con l’enfasi di chi ama più la guerra che la diplomazia – l’amministrazione Trump ha vietato formalmente all’Università di Harvard di accettare nuovi studenti internazionali. Non solo: ha ordinato una revisione delle attuali iscrizioni straniere con la minaccia concreta di revoca dei visti. Motivo? “Rischi per la sicurezza nazionale”. Ovviamente, c’è di mezzo la Cina. E il sospetto, sempreverde, che dietro ogni studente con un laptop si nasconda un agente del Partito Comunista.
In un’America dove le università diventano campo di battaglia tra ideologia, tecnologia e geopolitica, Harvard – con i suoi 10.000 studenti internazionali, di cui circa 2.000 cinesi – è ora trattata come se fosse un’enclave straniera sul suolo americano. Il cuore del potere accademico globale diventa bersaglio, sacrificato sull’altare di una paranoia che mescola sicurezza, populismo e retorica post-11 settembre.
La dichiarazione ufficiale cita l’FBI: gli avversari stranieri userebbero le università d’élite per “rubare informazioni tecniche, sfruttare ricerche costose e diffondere propaganda”. Un déjà vu per chi ha memoria del Maccartismo, ma questa volta il bersaglio è più preciso, il contesto più sofisticato, il linguaggio più orwelliano. Le parole “elite”, “espionaggio” e “China threat” bastano da sole a incendiare l’opinione pubblica conservatrice.
Ciò che colpisce, più del provvedimento in sé, è la sua struttura narrativa. Il documento della Casa Bianca costruisce un racconto di Harvard come una sorta di “Trojan horse” accademico, una porta girevole per spie, sabotatori e studenti-manichino. Eppure, mentre Washington si agita, la Silicon Valley – dove molti laureati di Harvard finiscono – continua ad assumere cinesi, indiani, europei. Gli stessi che, ironia della sorte, alimentano proprio quell’innovazione americana che Trump dice di voler difendere.
La questione, quindi, non è semplicemente di sicurezza. È ideologica. La guerra contro Harvard rientra in una strategia precisa: demonizzare le istituzioni che rappresentano il potere culturale globalista. Harvard, Columbia, Princeton – tutte accusate di antisemitismo, tutte minacciate di tagli ai fondi federali – diventano simboli da abbattere per consolidare la base elettorale. L’università, in questo schema, non è più luogo di sapere, ma zona franca per l’infiltrazione straniera. Peccato che, storicamente, proprio le università americane abbiano attratto i migliori talenti globali, alimentando la supremazia tecnologica ed economica degli Stati Uniti. Ma qui la logica cede il passo alla guerra culturale.
Nella sua risposta, Harvard parla di “ritorsione illegale” e di “violazione del Primo Emendamento”. Non è solo una questione di iscrizioni, ma di principio. Se un presidente può, con un tratto di penna, decidere chi ha il diritto di studiare in America, allora cosa rimane della libertà accademica? E, più concretamente, chi riempirà i laboratori, le aule, gli incubatori di startup?
Secondo studi del National Science Foundation, oltre il 40% dei dottorandi in ingegneria negli USA sono stranieri. Senza di loro, interi programmi rischiano di spegnersi. Ma forse è proprio questo il punto: disinvestire dalla scienza globale per costruire una scienza patriottica, “America First”, anche nei laboratori. Il problema è che la ricerca non conosce confini. Né il talento. E la storia recente lo conferma: i maggiori avanzamenti scientifici del secolo – dal CRISPR alla fusione nucleare – sono frutto di collaborazioni internazionali.
Il caso Harvard diventa quindi uno specchio inquietante del presente: l’università come minaccia, lo studente straniero come sospetto, l’intellettuale come traditore. In un tempo in cui l’informazione è liquida e il consenso si costruisce su TikTok, colpire simboli forti è più efficace che approvare leggi sensate. E Harvard è un simbolo perfetto: antico, potente, cosmopolita. Troppo potente, forse, per non essere umiliato.
Il tutto avviene mentre la guerra commerciale con la Cina ristagna, e la diplomazia è sostituita da atti unilaterali. Revocare i visti a migliaia di studenti cinesi non è solo una decisione amministrativa: è una provocazione. Uno sfregio pubblico. E una mossa elettorale. La narrativa è semplice: il nemico è dentro casa, travestito da studente modello.
Trump lo sa bene: la complessità non paga in politica. Meglio una narrativa binaria. Buoni e cattivi. Harvard e il popolo. Gli scienziati e il patriota. I laureati in filosofia politica e il lavoratore della Rust Belt. Peccato che il mondo reale sia molto meno semplificabile. E che, senza quegli studenti stranieri, anche i sogni americani diventino meno competitivi.
A margine, vale la pena ricordare un dettaglio ironico: lo stesso Trump è laureato all’Università della Pennsylvania, un’altra Ivy League. E i suoi figli, non esattamente rappresentanti della working class, hanno frequentato le stesse università d’élite che oggi vengono demonizzate. Ma il populismo funziona così: taglia, semplifica, punisce. E poi lascia che il caos si trasformi in consenso.
La vera domanda, però, è un’altra: chi sarà il prossimo? Se si può bloccare Harvard, si potrà chiudere anche Stanford? Revocare visti a chi studia matematica teorica al MIT? O a chi fa bioingegneria alla Johns Hopkins? In fondo, ogni genio potrebbe essere una minaccia. Ogni idea, un’arma. Ogni borsa di studio, un cavallo di Troia.
In questo clima, il sapere smette di essere un bene comune. Diventa una risorsa sospetta. E il campus universitario, una zona grigia tra democrazia e autoritarismo.