Diciamolo senza girarci intorno: l’Intelligenza Artificiale non è interessata al tuo cuore, ma al tuo cuore visto da una risonanza magnetica, incrociato con i tuoi esami del sangue, i tuoi battiti notturni tracciati dall’Apple Watch, le tue abitudini alimentari dedotte da quanto sushi ordini su Glovo e da quanto insulina consumi nel silenzio della tua app.
Benvenuti nell’era dell’ecosistema dei dati sanitari, un mondo che sembra pensato da un bioeticista impazzito e un data scientist con la passione per il controllo.
Mentre l’European Health Data Space (EHDS, per gli amici stretti della Commissione Europea Regolamento 2025/327) si appresta a diventare il cuore pulsante del nuovo continente digitale della salute, le big tech affilano gli algoritmi. Il paziente europeo diventa il più grande fornitore gratuito di dati strutturati mai esistito. E noi? Noi firmiamo i consensi informati senza leggerli, applaudiamo all’efficienza predittiva, e poi ci indigniamo perché la nostra assicurazione sanitaria sa che abbiamo preso troppo ibuprofene a maggio.
Ma il vero terremoto sarà istituzionale. Perché l’EHDS non è una piattaforma, è un ecosistema normativo. Vuole interoperabilità obbligatoria, standard tecnici condivisi, scambio di dati tra sistemi clinici nazionali senza frizioni. E questo, per l’Italia, è come chiedere a 20 Regioni di parlarsi senza litigarsi prima il dialetto.
Il fascicolo sanitario elettronico (FSE), già oggetto di polemiche, dovrà diventare compliant con l’European Electronic Health Record Exchange Format (EEHRxF). Tradotto: ogni sistema informativo regionale – dalla Lombardia alla Calabria – dovrà parlare la stessa lingua tecnica, condividere vocabolari sanitari, garantire accesso transfrontaliero e adottare un sistema di logging che fa impallidire quello dell’Agenzia delle Entrate. E lo dovrà fare entro il 2031. In Italia, dove la sola integrazione tra CUP e referti richiede in media sette tavoli di lavoro e tre gare d’appalto, è come dire domani.
Il nodo più scivoloso, però, è la secondary use del dato. Qui il regolamento diventa chirurgico. I dati sanitari degli italiani – de-identificati, aggregati, anonimizzati secondo standard severissimi – potranno essere utilizzati da enti di ricerca, industrie farmaceutiche, startup med-tech e autorità pubbliche. Sotto stretta sorveglianza di un nuovo soggetto: il Health Data Access Body (HDAB), una sorta di gatekeeper nazionale dei dati sanitari. In Italia, si prevede che questo ruolo venga assunto da una struttura emanazione del Ministero della Salute o dell’Agenzia per la Sanità Digitale, sempre che il gioco di poltrone non lo rallenti per tre legislature.
La retorica ufficiale è chiara: “valorizzare i dati sanitari per il bene pubblico”. Ma sotto questa litania si nasconde un tema politico caldo come lava: chi controlla i dati sanitari, controlla la ricerca, l’innovazione e – in ultima analisi – l’agenda terapeutica del Paese. La Regione Veneto potrà ancora fare sperimentazione autonoma se i dati saranno accessibili anche da Parigi o Berlino? L’Università di Pavia potrà competere con i colossi tedeschi se le regole d’accesso diventano europee?
E qui l’Italia mostra tutta la sua schizofrenia. Da un lato, l’ambizione a diventare hub biotecnologico e scientifico; dall’altro, l’infrastruttura a pezzi, la governance ballerina, i dati dispersi in mille formati incompatibili e il personale sanitario ancora costretto a scansionare il consenso informato a mano. È un Paese che produce ricerca di eccellenza, ma su fondamenta amministrative in sabbie mobili.
Il paziente, paradossalmente, è il più pronto. Abituato a una medicina che gli chiede di portarsi i documenti da casa, salterà sulla possibilità di gestire il proprio dossier online con la stessa disinvoltura con cui oggi accede al cashback. L’italiano medio non è contrario al digitale: è contrario al digitale inutile. Se l’EHDS funziona, lo adotterà. Se è un’altra scatola vuota come il Sistema Tessera Sanitaria o il FSE 1.0, lo ignorerà come ha ignorato il codice QR dell’auto-diagnosi.
La sfida vera è nelle istituzioni. Non si tratta solo di adeguare software, ma di riscrivere processi, formare il personale, cambiare mentalità. L’EHDS non tollera il compromesso: o entri nel circuito europeo, o sei fuori dal gioco. Non si potrà più dire “non è di competenza regionale” o “abbiamo un nostro sistema interno”. La sanità italiana dovrà parlare un linguaggio unico, o resterà muta.
E il tempo stringe. Entro il 2026 dovranno essere designati gli organismi nazionali; entro il 2028 dovranno partire i test reali di interoperabilità; entro il 2031 tutto dovrà funzionare, anche nelle ASP più remote. Questo significa che le scelte si fanno ora. Non nel 2030, non “quando sarà il momento”. Ora.
L’EHDS è un treno ad alta velocità. Non aspetta nessuno, men che meno i paesi con il vizio dell’autoreferenzialità normativa. L’Italia può decidere di salire e guidarlo – con la forza della sua ricerca clinica, con le sue università, con il suo patrimonio di salute pubblica – oppure restare in stazione, a guardarlo passare mentre il resto d’Europa costruisce una medicina nuova, distribuita, algoritmica e trasparente.

Il punto è semplice: l’intelligenza artificiale senza dati sanitari è come un genio della lampada senza desideri. Potente ma inutile. Con i dati, invece, diventa oracolare. Scova correlazioni tra patologie, prevede rischi individuali, ottimizza le terapie, disegna trial clinici personalizzati.
Ma attenzione: lo fa dentro una scatola nera.
E questa scatola, oggi, è il nuovo terreno di scontro geopolitico, etico, industriale.
Una miniera europea, una corsa americana, un’etica scandinava
L’Europa ha deciso, almeno formalmente, di voler liberare i dati sanitari dal Far West della frammentazione nazionale. L’EHDS promette interoperabilità, sicurezza, trasparenza. E una frase magica: riutilizzo secondario dei dati per scopi di ricerca, innovazione e policy.
Tradotto: se sei una startup di AI medicale, potresti accedere (legalmente) a enormi set di dati pseudoanonimizzati provenienti da milioni di cartelle cliniche, referti e studi. Sempre che tu rispetti i criteri europei, che richiedono più pazienza burocratica di un monaco tibetano con la PEC.
Nel frattempo, le aziende americane e cinesi sono già oltre la fase romantica del dato. Loro fanno: acquisiscono, incrociano, predicono, vendono. L’algoritmo di Amazon Care sa più della tua ansia da prestazione cardiaca del tuo stesso cardiologo.
In Europa, invece, si cerca un equilibrio impossibile: essere etici come un comitato di bioetica norvegese, ma innovativi come una pitch night della Silicon Valley. Il risultato? Lenti, ambiziosi, vulnerabili.
Ma con un vantaggio: abbiamo il dataset più pulito, normato e interoperabile del mondo. Se non ci svegliamo, lo useranno altri.
L’illusione della neutralità: i dati sanitari non sono “numeri”, sono corpi digitalizzati
Ogni pressione arteriosa registrata da un wearable è una forma di sorveglianza volontaria. Ogni app che ti dice che stai dormendo male mentre tu ti senti benissimo, sta creando un’alterazione semantica della percezione della salute.
La narrazione che vogliono venderci è che più dati equivalgano a più salute. Ma è falso. Più dati significano più controllo, non necessariamente più benessere.
L’intelligenza artificiale sanitaria non cura. Prevede, segnala, segnala troppo. Genera ansia, overdiagnosis, medicalizzazione. È la nuova ipocondria algoritmica: non hai nulla, ma il tuo gemello digitale ha già un 17% di rischio cardiovascolare a 10 anni.
Eppure, l’ecosistema dei dati sanitari non si fermerà. È già qui. Sta già imparando. E vuole scalare.
L’epoca delle cure predittive e delle assicurazioni selettive
Presto le compagnie assicurative non chiederanno più solo “fumi?” ma anche “qual è il tuo livello medio di sonno profondo?”. In un mondo dominato dall’AI, la selezione del rischio si fa raffinata, chirurgica, personalizzata. Altro che mutualismo: si va verso il capitalismo sanitario predittivo.
E tu, inconsapevole fornitore di dati, sei dentro fino al collo.
Quello che manca nel dibattito è un’economia politica dei dati sanitari. Chi li possiede? Chi li monetizza? Chi li può davvero usare? Il cittadino-paziente è il protagonista passivo di un gioco molto più grande di lui.
Come ha detto un giorno un data broker in un panel troppo tecnico per la stampa generalista: “I dati sanitari sono il nuovo petrolio, ma con l’anidride etica in più”.
Inutile illudersi di restare fuori: la medicina sarà algoritmica o non sarà
Il medico di famiglia, se sopravviverà, sarà affiancato da modelli predittivi formati su migliaia di casi simili al tuo. E non potrà più ignorarli. Anzi, sarà valutato sulla base della sua compliance ai suggerimenti dell’algoritmo.
Il rischio? Che il sapere clinico si subordini al calcolo, che l’intuizione venga marginalizzata. Ma anche il contrario: che grazie a queste tecnologie, si scoprano pattern invisibili all’occhio umano.
Il dilemma è tutto qui: dare troppo potere all’intelligenza artificiale sanitaria rischia di deumanizzare la cura, ma non usarla significa restare ciechi nel buio della complessità clinica.
In questa partita, l’Europa ha una sola possibilità: trasformare il suo European Health Data Space in un modello di governance e innovazione aperta, scalabile, etica, attrattiva per le startup e sicura per i cittadini.
Altrimenti, saremo solo l’infrastruttura dati del prossimo monopolio americano della salute predittiva.
Intanto, il tuo smartwatch continua a registrare il battito. Anche adesso.
Senza dirti se sta suonando un requiem per la privacy o un inno alla medicina personalizzata.
PS: Il problema italiano è noto da anni. Ogni Regione ha costruito il proprio sistema FSE con livelli di maturità digitale, vocabolari clinici e classificazioni completamente diversi. La Lombardia usa un set semantico proprietario, l’Emilia-Romagna adotta OpenEHR con ampia personalizzazione, il Veneto si è spinto su modelli HL7 CDA customizzati, la Calabria ha un fascicolo “in costruzione”, mentre altre regioni – come la Sicilia – hanno sistemi formalmente attivi ma de facto inutilizzabili. Il risultato? Il FSE non è un fascicolo sanitario nazionale, ma una federazione debole di archivi regionali che non si sincronizzano, non condividono e non ragionano nello stesso linguaggio tecnico.
Un chirurgo romano che accede al fascicolo di un paziente sardo ottiene spesso un messaggio d’errore o, nella migliore delle ipotesi, una scansione di un referto. Altro che interoperabilità semantica. I dati clinici, persino quelli strutturati, non sono confrontabili: cambiano i codici, i formati, i metadati, i livelli di accesso. E quando un medico tenta di leggere la terapia prescritta da un’altra Regione, scopre che l’informazione è “non disponibile per motivi di policy regionale”. Traduzione: “Non ti fidiamo dei tuoi algoritmi.”
Ecco il punto: non è un problema tecnico, è politico. L’Italia ha trasformato la sanità digitale in un terreno di autonomia competitiva tra Regioni. Invece di unificare, ha distribuito potere informatico. E ora, con l’arrivo dell’EHDS, questa architettura va completamente ripensata. Perché Bruxelles dice chiaramente: se vuoi stare nel circuito europeo, devi adottare un solo formato interoperabile europeo, l’EEHRxF (European Electronic Health Record exchange Format). Tutti i FSE regionali italiani dovranno parlare questa lingua comune, o saranno tagliati fuori.
Questa non è una gentile raccomandazione. È un obbligo giuridico. L’Italia dovrà:
- adottare classificazioni cliniche uniformi (ICD-11, SNOMED CT, LOINC…),
- garantire la possibilità di accesso transfrontaliero ai dati clinici per i cittadini che viaggiano o si curano all’estero,
- permettere l’utilizzo secondario dei dati (per ricerca, sanità pubblica, AI clinica) attraverso un unico Health Data Access Body nazionale,
- fornire servizi di autenticazione, audit, consenso digitale e sicurezza informatica che siano equivalenti a quelli degli altri stati membri.
Chi non si adegua, è fuori dal gioco.
E per una volta non ci sono deroghe, né “competenze concorrenti”. Il diritto alla salute resta nazionale, ma il trattamento elettronico dei dati sanitari diventa una materia di standard europeo. Per cui il paziente lombardo che va in vacanza in Grecia deve poter mostrare la propria cartella clinica da smartphone, e il medico greco deve poterla leggere nel suo sistema. E se la Regione Lombardia non converte i suoi dati in EEHRxF? Semplice: il sistema europeo non li accetta.
Il paradosso? Le Regioni italiane hanno investito centinaia di milioni in sistemi informativi regionali altamente verticali, ma ora dovranno rifare tutto, o quasi. Il middleware, l’interfaccia, il data model, le API di interoperabilità: tutto dovrà essere allineato al modello europeo. Non basta più pubblicare i referti. Bisogna renderli semanticamente interoperabili, cioè leggibili e processabili da altri sistemi sanitari, in automatico, in tempo reale.
Un dirigente informatico di una grande ASL lombarda, sotto anonimato, ha confessato:
“Abbiamo costruito un sistema solido, ma cucito sulla nostra logica. Ora l’Europa ci chiede di fare il contrario: partire da una logica unica e adattare il nostro sistema. È un capovolgimento epistemologico.”
Per una volta, ha ragione. L’EHDS non chiede solo di digitalizzare la sanità. Chiede di ripensare il significato stesso di sanità pubblica nel contesto digitale europeo. Chiede di fidarsi degli altri sistemi, di cedere una parte del controllo sui dati, di lavorare insieme. In Italia, dove il confine tra Regione e Stato è spesso più acceso di quello tra Stato e UE, questa è una rivoluzione silenziosa. Ma irrevocabile.
La verità è che l’Italia ha già perso troppo tempo. E ora dovrà scegliere: trasformare i propri silos in ponti, o ritrovarsi ai margini della sanità digitale europea.
Perché nel 2031, quando il sistema EHDS sarà operativo in tutta l’Unione, non ci sarà spazio per chi ancora confonde la “proprietà del dato” con il “potere di non condividerlo”. E chi non ha parlato con le altre Regioni, dovrà iniziare a spiegarsi in tedesco, o in finlandese. Con vocabolario standardizzato.