È successo di nuovo. Un altro episodio del più grande reality americano, una tragicommedia di potere, ego e tweet: Elon Musk e Donald Trump, due poli magnetici del narcisismo contemporaneo, si sono scontrati in pubblico come due CEO con troppo tempo libero e un’ossessione condivisa per l’attenzione. Il loro litigio ha avuto il sapore di un wrestling elettorale tra chi vuole dominare Marte e chi ancora pensa di poter ri-conquistare Manhattan. Il risultato? Più fumo che fuoco, ma anche un riflettore impietoso acceso sul rapporto torbido tra la Silicon Valley e la nuova – o meglio, rinnovata – MAGAcronica amministrazione trumpiana.

La tentazione è quella di liquidare il tutto come un litigio tra miliardari, uno scontro tra titani della vanitas, ma sarebbe un errore. Perché sotto questa soap opera digitale si muove qualcosa di molto più profondo: il posizionamento strategico delle tecnologie critiche – intelligenza artificiale, criptovalute e spazio – nel nuovo ordine politico trumpista. Un ordine che non ama la regolamentazione, diffida delle burocrazie, e soprattutto sa perfettamente che il potere passa anche dalle piattaforme e dagli algoritmi.

David Sacks, il tech bro supremo prestato alla politica, è la chiave per decifrare questo rapporto. Membro del famigerato PayPal Mafia, socio storico di Musk, oggi Sacks è uno dei consiglieri ombra più ascoltati alla Casa Bianca in tema di AI e crypto. E nonostante la faida pubblica tra Musk e Trump, non sembra affatto intenzionato a farsi trascinare via nel vortice della vendetta. Anzi, ha difeso con fervore il “Big Beautiful Bill” trumpiano, un testo legislativo talmente confuso da far sembrare comprensibile persino il whitepaper di Bitcoin. E quando in passato lo aveva criticato? “Ero stato male informato”, dice lui. Traduzione: ho capito da che parte tira il vento.

Sacks non è solo. Intorno a Trump si sta ricompattando una nuova tech elite, meno legata al liberalismo californiano e più incline al darwinismo da server farm. Criptovalute e intelligenza artificiale sono i totem sacri di questa nuova alleanza. Coinvolgono flussi di capitale, potere cognitivo e – soprattutto – immunità politica. Le stablecoin, ad esempio, stanno già beneficiando di un clima più favorevole: Circle, il gruppo dietro USDC, ha visto un’impennata da manuale da quando la nuova amministrazione ha iniziato a strizzare l’occhio alla crypto economy. Non è un caso. È il capitale che riconosce i suoi sacerdoti.

Marc Andreessen, altro simbolo dell’intreccio tra tech, ideologia libertaria e pragmatismo miliardario, ne è l’emblema: fan dichiarato di Musk, ma anche fervente investitore nel settore crypto. E, come ogni buon hedge ideologico, sa bene che il futuro è dove ci sono meno regole e più margini. Andreessen non sta scegliendo tra Trump e Musk: li sta shortando entrambi per rimanere long sulla tecnologia.

Nel frattempo, Meta e Amazon giocano una partita più ambigua. Zuckerberg ha stretto la mano all’ombra di Trump, ma i risultati sono stati scarsi. La causa antitrust è andata avanti lo stesso, e se la relazione tra Meta e Washington è migliorata, è difficile attribuirlo a una particolare strategia diplomatica. Forse, più semplicemente, il trumpismo tecnologico ha capito che Meta non è più la minaccia sistemica di una volta. Facebook è diventato il boomer network, un’infrastruttura obsoleta per una guerra culturale che oggi si combatte su altri fronti.

Jeff Bezos, invece, ha forse più da guadagnare dalla rottura tra Musk e Trump. Blue Origin, la sua startup spaziale costantemente in ritardo ma perfettamente posizionata per prendere il posto di SpaceX in caso di rappresaglia politica, potrebbe diventare la vera vincitrice silenziosa. Trump non ha mai amato Musk davvero. Lo ha tollerato, finché gli conveniva. Ora, con la minaccia di cancellare i contratti governativi con SpaceX, apre la porta a una nuova fase del sogno spaziale americano: più geopolitica, meno ingegneria.

Ecco il paradosso: mentre Musk si aliena l’establishment conservatore, una nuova generazione di tecnologi trumpiani si consolida. Più silenziosi, meno iconici, ma molto più pericolosi. Non vogliono colonizzare Marte, vogliono colonizzare il Congresso. Non promettono l’Utopia, ma una distopia regolamentata dal mercato. Sono i tecnici del potere, gli ingegneri della deregolamentazione, gli alchimisti del private equity applicato all’intelligenza artificiale.

La frattura Musk-Trump, quindi, è affascinante non perché segni un crollo dell’asse tech-destroide, ma perché lo rivela per quello che è: un’alleanza strumentale, non affettiva. Trump non ha bisogno di Musk, ha bisogno dei suoi ingegneri. E i tech bros non hanno bisogno di Twitter, hanno bisogno di Washington. L’ego di Elon è solo un ostacolo narrativo in una trama molto più profonda: la trasformazione della tecnologia da strumento di cambiamento in leva di potere.

Ciò che resta da capire è se la gente alla Casa Bianca – quella vera, fatta di assistenti, consiglieri e burocrati mal pagati – vedrà in questa alleanza un’opportunità o una minaccia. La storia recente insegna che i tecnocrati tendono a sopravvivere alle guerre ideologiche. E mentre noi guardiamo il teatrino tra Musk e Trump con l’entusiasmo di chi segue un reality su Netflix, dietro le quinte si gioca la partita vera: quella sul controllo delle infrastrutture cognitive del futuro.

Perché una cosa è certa: l’intelligenza artificiale non vota, ma chi la controlla può decidere chi vincerà.