Se volevate un esempio plastico del connubio perverso tra lobby, politica miope e Big Tech in cerca di deregulation, eccolo servito su piatto d’argento: un emendamento, sepolto nella finanziaria proposta da Donald Trump — il suo “big, beautiful bill” — che di fatto congela per dieci anni qualsiasi regolazione statale sull’intelligenza artificiale. Una mossa che ha più il sapore di una sabotaggio preventivo che di una visione strategica. Ma forse è proprio questo il punto: la strategia è uccidere il dibattito sul nascere, mentre si finge di attendere un’ipotetica, mai vista regolamentazione federale.

L’emendamento non si limita a fermare la corsa alla regolazione locale — la sola che negli ultimi anni abbia prodotto qualcosa di concreto — ma revoca retroattivamente anche quelle poche norme già esistenti. Uno stop totale, indeterminato e regressivo, imposto nel momento esatto in cui il settore AI accelera verso un’adozione massiva e incontrollata.

Il dibattito politico, naturalmente, si divide lungo linee prevedibili ma non troppo. C’è chi, come OpenAI e alcuni repubblicani, sostiene che serve “una visione federale unificata” per evitare un patchwork normativo che soffocherebbe l’innovazione americana e darebbe un vantaggio a colossi cinesi come DeepSeek. È un mantra ormai standard: ogni ostacolo normativo è un freno al “sogno digitale americano”, e ogni freno è automaticamente un favore a Pechino. Una narrativa che, a ben vedere, odora più di lobbying che di geopolitica.

Nel frattempo, le aziende big — Microsoft, Meta, Apple e Google — osservano il silenzio, una scelta tattica che urla complicità. La loro assenza dal tavolo del commento è eloquente quanto una dichiarazione ufficiale. Quando il campo di gioco viene disegnato in loro favore, è più conveniente restare dietro le quinte a contare i dividendi che esporsi al dibattito pubblico.

Dario Amodei, CEO di Anthropic, ha avuto almeno il merito — raro — di scrivere un editoriale sul New York Times per dire che no, non ci siamo: una moratoria così è uno strumento troppo rozzo per un problema così sofisticato. Ma nemmeno lui osa spingere troppo oltre: propone “trasparenza”, report pubblici e auto-valutazioni. Siamo al confine tra il wishful thinking e l’autoregolamentazione da club esclusivo, lo stesso che ci ha portati alle bolle immobiliari, alle crisi bancarie e ora — di nuovo — a delegare all’industria la supervisione di sé stessa.

Il cuore del problema è che non esiste (né esisterà a breve) una cornice federale efficace. Negli ultimi dieci anni, il Congresso ha fallito ripetutamente su tutto ciò che conta in ambito tecnologico: privacy, antitrust, cybersecurity. Aspettarsi che ora, in un contesto più complesso e più accelerato, riesca magicamente a produrre una legge seria sull’AI è un esercizio di ottimismo patologico.

I dati della National Conference of State Legislatures parlano chiaro: delle oltre 1.000 leggi proposte nel 2025, meno di 80 sono state effettivamente approvate. Non siamo di fronte a una giungla, ma a un orto sperimentale. Un esperimento che il Congresso, invece di studiare, vuole estirpare.

Dietro il paravento dell’AI si nasconde in realtà una partita molto più ampia: la neutralizzazione preventiva di ogni legge locale che tocchi anche lontanamente i sistemi decisionali automatizzati. L’emendamento bloccherebbe potenzialmente anche leggi su discriminazioni algoritmiche, violazioni di privacy, abuso dei dati nei settori sanitario e abitativo. Basta che un’azienda dichiari di “usare AI” per ottenere una sorta di scudo anti-regolazione.

È la finta ingenuità legislativa che permette al capitalismo predatorio di prosperare: deregolare tutto oggi, promettere interventi domani, e nel frattempo consolidare posizioni monopolistiche che nessun regolatore — federale o statale — potrà più scalfire.

Il contrattacco politico, per fortuna, non si è fatto attendere. Il senatore Edward Markey ha già annunciato un emendamento per bloccare la moratoria, e 260 legislatori statali hanno firmato una lettera di opposizione. Anche organizzazioni come Americans for Responsible Innovation stanno mobilitando l’opinione pubblica, raccogliendo decine di migliaia di firme. Segno che la questione non è più confinabile nei corridoi di Capitol Hill.

Ma c’è un dettaglio che rischia di passare inosservato, e che invece merita tutta l’attenzione: la moratoria potrebbe essere “salvata” attraverso una scorciatoia tecnica, passando il filtro della Byrd Rule. Una manovra da tecnocrati della peggior specie: travestire una norma politica con impatto sistemico da clausola di bilancio, per inserirla in una legge finanziaria ed evitare così un dibattito vero.

Ecco, se c’è un momento in cui serve suonare l’allarme democratico, è questo. Perché il gioco non è solo sull’AI. È sulla governabilità del digitale stesso, sulla capacità di uno Stato di regolare il futuro in un contesto dove l’innovazione ha già superato la capacità di comprensione del legislatore medio.

Nel 2035 il mercato AI supererà il trilione di dollari. Congelare ogni tentativo di regolarlo per i prossimi dieci anni è come consegnare le chiavi della civiltà digitale alle stesse mani che oggi evitano responsabilità con la nonchalance di chi sa che, tanto, nessuno osa fermarli.

In assenza di un argine statale, e con il vuoto federale conclamato, questo non è un moratorium. È un lasciapassare, una morfina normativa che addormenta le istituzioni mentre il codice prende il potere.

E no, non è “assurdo”. È dannatamente strategico. E proprio per questo pericoloso.