In mezzo a una WWDC 2025 imbottita di funzioni AI, citazioni da Formula 1 e un pianista che canta recensioni di app – in uno di quei momenti tanto tipicamente Apple quanto inutilmente performativi – la grande assente era proprio lei: Siri. Non assente fisicamente, certo. Ma assente nello spirito, nei fatti, nella sostanza. Un’assenza che grida più di qualsiasi presentazione sul palco.

Apple ha parlato molto, come sempre. Ha evocato l’onnipresente “Apple Intelligence” (il branding che cerca disperatamente di restituire un’aura proprietaria a qualcosa che, in fondo, è OpenAI sotto il cofano), ha sbandierato aggiornamenti per FaceTime, Messaggi, traduzioni in diretta e una LLM “on-device”. Ma quando si è trattato dell’assistente virtuale che avrebbe dovuto essere la colonna sonora della rivoluzione AI, la voce di Siri è rimasta flebile, quasi imbarazzata. Più che un upgrade, un’interruzione diplomatica.

Craig Federighi, nel suo inconfondibile stile da keynoter disinvolto, ha pronunciato la frase che ogni investitore teme: “Ci stiamo ancora lavorando.” Tradotto dal corporate-ese, significa che non ci siamo nemmeno vicini. “Stiamo continuando a lavorare per rendere Siri più personale,” ha detto. Peccato che fosse esattamente la stessa promessa fatta un anno fa. E se Apple non ha problemi a vendere lo stesso iPhone con una fotocamera spostata di 3 millimetri come “il miglior di sempre”, con Siri sembra aver perso perfino la voglia di fingere entusiasmo.

Il vero problema? Non è solo Siri, è l’identità stessa di Apple nell’era dell’intelligenza artificiale.

In un mondo dominato da chatbot sempre più versatili e modelli che scrivono codice, generano video, interpretano immagini e simulano personalità, Apple arriva con un “Live Translate” tra chiamate FaceTime e un paio di scorciatoie vocali. Intendiamoci: utili, magari anche ben implementate, ma lontane anni luce dall’essere paradigm shifting. Mentre Google trasforma Gemini in un copilota visivo per ogni pixel del tuo telefono Android, e Microsoft infila il suo AI ovunque, da Copilot a File Explorer, Cupertino sembra arrancare dietro una strategia definita a metà tra il conservatorismo hardware e l’integrazione tiepida con OpenAI.

Eppure, l’ironia più tagliente non è nel ritardo, ma nell’incoerenza.

Apple ha trasmesso pubblicità di una Siri reinventata già nel 2024. Le promesse erano chiare: un assistente più personale, conversazionale, predittivo. Ma a distanza di dodici mesi, il massimo che otteniamo è la notizia che… ci stanno ancora pensando. Un po’ come se Tesla presentasse il Cybertruck, lo facesse guidare da Elon Musk sul palco, e poi dicesse: “Arriva nel 2028. Forse.”

Il contrasto con la concorrenza è violento. Google ha fatto di Gemini l’estensione logica del cervello umano nell’ecosistema Android. Microsoft, che pure partiva da un’AI molto più debole, ha trasformato Copilot in un layer operativo dentro Windows 11. Apple, nel frattempo, ha bisogno di ChatGPT per fare una vignetta di un cane come se fosse dipinto da Van Gogh. Suggestivo, ma poco utile.

La mancanza di una Siri evoluta è un paradosso quasi filosofico per Apple. L’azienda che ha fatto del controllo maniacale del software e dell’hardware il proprio marchio di fabbrica, oggi si ritrova a subappaltare intelligenza artificiale a terzi. Certo, con mille paletti, sandbox e un marketing che grida “privacy”, ma la verità è che l’intelligenza, quella vera, viene da altrove. Il chip M4 può essere anche il più veloce del mondo, ma se sopra ci gira un assistente ancora ancorato a logiche del 2016, l’illusione del progresso si sgretola.

E il pubblico lo sente.

Le demo di “Apple Intelligence” sono state accolte con l’applauso forzato tipico degli eventi corporate, ma fuori da Cupertino, l’entusiasmo è più freddo. Le “notification summaries” hanno fatto scalpore non per la brillantezza, ma per i fallimenti — riassunti che confondevano notizie tra loro, al punto che Apple ha dovuto disattivarli per alcune categorie. Un classico caso di overpromise and underdeliver.

Nel frattempo, la concorrenza non solo promette: consegna.

Il fatto che Siri non possa ancora rispondere a comandi multistep o personalizzarsi in base al comportamento dell’utente non è solo un dettaglio tecnico, è un fallimento strategico. È la prova che Apple sta inseguendo, non guidando. E peggio ancora: lo sta facendo a voce bassa, senza quel coraggio narrativo che un tempo trasformava limiti in trionfi.

L’ipotesi che Apple possa integrare anche Gemini, magari in una modalità selezionabile dall’utente, è ancora appesa ai rumors. E mentre Sundar Pichai parla già di rollout entro il 2025, Cupertino balbetta frasi vaghe sulla “qualità” e “lavori in corso”. Che, tradotto in Siliconese stretto, significa: stiamo perdendo terreno, ma speriamo che non ve ne accorgiate.

Certo, l’impostazione privacy-first di Apple resta un asset differenziante, soprattutto nell’era dei modelli affamati di dati. Ma non può essere una scusa per l’inazione. Proteggere la privacy non significa rinunciare all’ambizione. E oggi, Siri non è ambiziosa: è cauta, goffa, datata.

Il futuro di Apple nell’AI dipenderà da quanto sarà disposta a ridefinire sé stessa. A smettere di trattare l’intelligenza artificiale come una collezione di features distribuite con il contagocce, e iniziare a costruire un vero ecosistema conversazionale. Dove l’utente non usa Siri, ma parla con lei, la educa, la modella, la integra nella propria vita.

Ma per farlo, ci vuole coraggio. Quello che Apple, per ora, non ha mostrato.

Come disse Jobs, “Innovation is saying no to a thousand things.” Ma anche lui sapeva quando era il momento di dire un bel sì.