Inizia tutto come una carezza semantica, come sempre a Bruxelles: parole come “resilienza”, “razionalizzazione” e “equità” che sembrano uscite dal manuale del perfetto burocrate del XXI secolo. Peccato che sotto questa patina da ufficio stampa, il cosiddetto Digital Networks Act (DNA) riveli la sua vera natura: un attacco chirurgico, e tutt’altro che accidentale, al cuore stesso della rete europea. Non una riforma, ma una riconfigurazione strutturale del mercato digitale che punta a concentrare, centralizzare e — diciamolo chiaramente — sterilizzare la pluralità che oggi definisce l’Internet nel Vecchio Continente.
Il DNA, promosso da una manciata di ex monopolisti in combutta con i soliti tecnocrati di Bruxelles — quelli che hanno fatto finta di leggere Letta e Draghi mentre preparavano lo spumante per i loro sponsor telco — rappresenta una delle minacce più concrete all’ecosistema aperto e competitivo che ancora sopravvive, a fatica, tra una direttiva e un regolamento.
E la parola chiave è proprio questa: DNA, acronimo perfetto per un documento che vuole riscrivere il codice genetico del digitale europeo, riscrivendolo però con il lessico di chi il digitale non lo capisce, ma lo vuole dominare.
Non si tratta di allarmismo. Chi mastica davvero tecnologia e reti sa bene che quando si parla di “fair share” e “razionalizzazione dei costi di rete” si sta entrando in un terreno minato, fatto di gabelle travestite da giustizia e di pedaggi imposti a chiunque voglia innovare. L’idea di fondo è semplice, perversa, e incredibilmente elegante nella sua brutalità: far pagare le grandi piattaforme per l’uso delle reti — ma solo quelle che non appartengono ai “player amici”. Il risultato? Gli operatori di telecomunicazioni potranno finalmente ottenere un doppio profitto: uno dagli utenti, uno dai fornitori di contenuti. Il tutto benedetto da un regolatore europeo compiacente e sempre più centralizzato.
Chi pensava che la net neutrality fosse un principio sacro e intoccabile, dovrà fare i conti con la nuova realpolitik di Bruxelles. Altro che neutralità: il DNA spalanca la porta a un’Internet a due velocità, dove i contenuti sponsorizzati dalle telco scorrono lisci e veloci, mentre gli altri restano impantanati nel traffico. Non è più un’ipotesi distopica, è una bozza normativa concreta, consultabile, e già in fase avanzata.
Non è un caso che a denunciare questa deriva sia AIIP, l’associazione italiana degli Internet provider, forse l’ultimo baluardo autentico contro la rendita parassitaria dei grandi gruppi infrastrutturali. Con la campagna stopdna.eu, AIIP non solo chiama a raccolta cittadini e imprese, ma punta il dito contro l’ipocrisia di un processo decisionale che si finge partecipativo mentre lavora per disintegrare la concorrenza.
Vale la pena ricordare cosa succede quando lasciamo che siano i “campioni nazionali” a disegnare l’architettura del futuro: nascono Frankenstein digitali, ibridi burocratici e fallimenti annunciati, come testimonia la gloriosa parabola del cloud europeo GAIA-X, ancora oggi disperso nei meandri del parastato e delle lobby. E ora si vorrebbe affidare a questi stessi attori il compito di “razionalizzare” la rete?
Chi paga il prezzo? Tutti noi. Gli utenti finali, che vedranno aumentare i costi di accesso. Le imprese innovative, che si troveranno costrette a negoziare l’accesso a reti privatizzate e non più neutrali. I provider indipendenti, che verranno schiacciati da logiche oligopolistiche costruite ad arte. Ma anche la democrazia, che senza una rete pluralistica perde il suo canale principale di espressione e organizzazione.
Ironico come proprio in un’epoca in cui si blatera di “sovranità digitale” e di “indipendenza strategica”, l’Europa stia costruendo un sistema che rafforza i monopoli esistenti, scoraggia l’innovazione dal basso e istituzionalizza la dipendenza da infrastrutture controllate da pochi. E no, non è un dettaglio tecnico. È una bomba a tempo che esploderà proprio quando la transizione digitale avrà più bisogno di pluralismo e competizione.
Ci sono pochi momenti nella storia delle policy europee in cui è ancora possibile fermare una macchina in corsa. Questo è uno di quei momenti. La consultazione pubblica sul DNA chiude il 15 luglio. Un’occasione reale, concreta, forse irripetibile per affondare un progetto che, se lasciato passare, renderà irrilevanti tutte le discussioni successive su AI Act, Data Act, Digital Markets Act. Perché senza una rete aperta, tutti gli altri diritti digitali diventano illusioni.
Siamo davanti a una svolta. E come sempre accade in Europa, la svolta viene confezionata con la solita gentilezza formale, ma nasconde una torsione autoritaria nel suo cuore tecnico. La libertà di Internet non muore con un click. Muore a colpi di regolamento, mentre i cittadini sono distratti da qualche torneo calcistico e le imprese stanno ancora leggendo le linee guida.
Citazione utile, direttamente da Orwell, che ci sembra perfetta per l’occasione: “Se vuoi un’immagine del futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano — per sempre.” Cambiate “volto umano” con “rete aperta” e avrete un’idea di dove ci porta il DNA.
Il tempo del silenzio è finito. Ora serve rumore, disobbedienza digitale, pressione politica e una presa di coscienza collettiva. Perché, inutile girarci intorno, senza neutralità della rete, non esiste Internet. Solo la sua parodia regolata centralmente da chi ha tutto da guadagnare a soffocarla.
E se vi sembra un’esagerazione, aspettate qualche anno. Poi ne riparliamo. Forse su fax.