Non è una semplice acquisizione, e nemmeno una partnership. È un’iniezione di potere. Con 14,3 miliardi di dollari, Meta si è comprata metà dell’anima (e il 49% delle azioni) di Scale AI, la startup fondata dal prodigio Alexandr Wang. Non solo dati: con questo colpo da maestro, Zuckerberg si porta in casa il motore stesso del futuro dell’intelligenza artificiale generalista, l’AGI. Quella vera, quella che – per ora – nessuno ha ancora osato dichiarare davvero di voler costruire, almeno non a voce alta e senza ironia.

C’è una curiosità feroce attorno a questa manovra. Non tanto per la cifra (che comunque fa tremare le dita a scriverla), ma per il tempismo chirurgico: mentre OpenAI si contorce tra modelli GPT semi-aperti e partnership sempre più aziendali, Meta ha scelto di scavalcare il dibattito e saltare direttamente nel pozzo dove si etichettano i dati, il carburante sporco e indispensabile dell’IA.

Alexandr Wang, ventisettenne con lo sguardo da ragazzo e la visione da generale, resta a bordo come direttore. Ma sarà Jason Droege, ex Uber e ora Chief Strategy Officer, a indossare la giacca dell’amministratore delegato. Una mossa che lascia Wang libero di infilarsi nel laboratorio di superintelligenza targato Meta, il cui obiettivo è, letteralmente, quello che gli altri chiamano ancora fantascienza: costruire un cervello sintetico in grado di imparare tutto.

Meta, in silenzio, ha appena trasformato la guerra dell’IA in una corsa per il controllo della semantica globale.

Non c’è AGI senza dati. E Scale AI non fornisce dati, li trasforma in conoscenza grezza

L’ironia della storia è che l’IA – che si vuole autonoma, etica, imparziale – nasce ancora oggi a mano. Il labeling, cioè il processo di etichettatura dei dati, è fatto perlopiù da esseri umani, spesso sottopagati, distribuiti in paesi con regolamentazioni deboli. L’intelligenza, per ora, è ancora un prodotto artigianale del capitalismo. Scale AI è il gigante silenzioso di questo mercato. Lavora già per Google, OpenAI, e ora apre il portone a Meta, mantenendo formalmente l’indipendenza operativa (una gentilezza necessaria per tenere a bada l’antitrust).

Zuckerberg ha fatto finta di voler aprire l’IA, ma il futuro non è open source: è una questione di controllo del pipeline di dati. E Scale controlla la pipeline.

La narrazione ufficiale parla di “produzione dati per modelli AI”, ma la verità è meno nobile: Meta ha acquistato la possibilità di modellare la realtà attraverso etichette. Chi controlla la semantica dei dati – decide cosa è un gatto, cosa è una minaccia, cosa è un volto felice – controlla la forma stessa della verità computazionale. L’AGI non sarà un prodotto, sarà una narrazione, e Meta vuole scriverla per prima.

Nel frattempo, la corsa all’AGI si polarizza. Da un lato, i colossi con le loro megastrutture chiuse. Dall’altro, un ecosistema open-source e decentralizzato che cerca di costruire infrastrutture alternative, spesso con mezzi limitati ma ambizioni feroci. È il caso di Sovrun, supportata da Andreessen Horowitz, che predica la decentralizzazione come futuro inevitabile dell’intelligenza artificiale.

Renz Chong, il suo CEO, dice chiaramente che non basta costruire modelli migliori. Bisogna cambiare “chi li può modellare”. Parole che suonano come un manifesto. Mentre Meta compra le etichette del mondo, Sovrun sogna un’IA pubblica, neutra, distribuita. Ma i sogni hanno bisogno di GPU, e queste costano.

C’è una tensione crescente: i modelli decentralizzati sono potenti, ma spesso dipendono ancora da API centralizzate, punti ciechi del sistema che svelano quanto sia difficile uscire davvero dal giogo dei giganti. Intanto progetti come ReadyGamer – AI-driven NPCs dentro mondi videoludici – cercano di costruire alternative che non siano solo filosofiche, ma anche economicamente sostenibili. Un’utopia armata di backend.

Chi decide cosa conta come intelligenza?

La domanda non è più tecnica, è politica. Meta ha capito prima di altri che l’AGI non si costruisce solo con modelli, ma con infrastrutture semantiche. Gli ingegneri contano meno dei dataset. E i dataset si comprano. O si producono in casa. Meglio ancora: si etichettano con criteri proprietari.

Nel mezzo, l’Europa osserva impotente. E mentre le audizioni al Senato USA si moltiplicano – con ex dirigenti Meta che accusano l’azienda di collusioni pericolose con la Cina – l’interrogativo rimane sospeso come una variabile mal dichiarata: a chi risponderà l’AGI, una volta sveglia?

Meta risponde con l’ottimismo siliconvalleyano di sempre. L’investimento è una “milestone” per il futuro dell’intelligenza. Wang scrive ai dipendenti con parole da cartolina, ma sotto si legge il messaggio autentico: avete costruito qualcosa che non possiamo permetterci di lasciar crescere altrove.

C’è qualcosa di inquietante nel modo in cui Meta, Google, Microsoft e OpenAI si contendono pezzi del puzzle come se fosse un risiko geopolitico. Non è solo tecnologia, è epistemologia armata. Chi possiede il dataset vince. O peggio: chi definisce il dataset, detta legge.

Ecco perché l’investimento in Scale AI è forse la mossa più intelligente (e più spaventosa) di Meta dai tempi di WhatsApp. Perché qui non si tratta di messaggi da criptare, ma di concetti da costruire.

Il futuro dell’AGI non sarà deciso dai migliori modelli. Sarà deciso da chi impone le regole del gioco a monte.

E Zuckerberg – con il suo sorriso da college drop-out e l’ambizione da imperatore romano – ha appena comprato la matita.