L’intelligence non è più un affare da spie in trench coat e valigette scambiate sotto la pioggia. Oggi, è una leva di influenza pubblica, uno strumento narrativo, una tecnologia semiotica della credibilità. E, soprattutto, è un asset strategico. Quello che un tempo si celava dietro classificazioni “Top Secret” oggi si pubblica su X con tanto di infografica e hashtag, nell’illusione ben calcolata che trasparenza e potere possano coesistere in armonia. Spoiler: non possono. Ma è proprio in questa tensione che si gioca il futuro del deterrente.
Il recente report del NATO Strategic Communications Centre of Excellence — nomen omen — svela con chirurgica precisione come la comunicazione strategica non sia più un contorno alle operazioni militari, ma la nuova artiglieria pesante. In questo nuovo teatro, la parola chiave è “narrativa”. Non la verità, non il dato, non la realtà: ma la narrativa.
Siamo entrati nell’era del Pre-Disclosure Warfare. L’intelligence viene rilasciata non per informare, ma per orientare. Non per rivelare, ma per anticipare. Non per spiegare, ma per costruire consenso. È una mossa anticipatoria, spesso performativa, che mira a modulare il comportamento degli attori ostili. E se pensate che sia qualcosa di nuovo, ricordatevi che Sun Tzu ci aveva già avvertito: “La suprema arte della guerra è sottomettere il nemico senza combattere.”
Il caso dell’invasione russa dell’Ucraina nel 2022 ha segnato un punto di rottura. Per la prima volta, intelligence top-level è stata rilasciata pubblicamente — prima ancora dell’attacco — per costruire una pre-narrativa che delegittimasse le mosse di Mosca. Il risultato? Un gioco psicologico di specchi e ombre, dove ogni rivelazione diventava insieme deterrente e provocazione. Il paradosso è servito: più trasparenza, più rischio. Come mostra la storia recente, il rilascio strategico di intelligence può ritardare un’aggressione quanto affrettarla.
Nel frattempo, il dominio dell’open-source intelligence (OSINT) ha frantumato il vecchio monopolio degli Stati sulla verità. Da Bellingcat a Maxar, dai satelliti civili alle telecamere di sicurezza hackerate, la veridicità non è più questione di classifiche interne, ma di consenso esterno. La credibilità non si costruisce più a porte chiuse. È una partita giocata nella piazza digitale globale, dove ogni narrativa deve competere nel mercato dei feed.
Ecco perché oggi StratCom — la comunicazione strategica — è diventata armamento puro. Dimenticatevi i briefing per addetti ai lavori. Pensate a Zelensky in T-shirt verde oliva che parla direttamente al Congresso USA, mentre Twitter trasmette in tempo reale gli effetti di un attacco missilistico. La guerra non è più solo cinetica, è semiotica. La superiorità narrativa è un moltiplicatore di potenza. La legittimità è il nuovo teatro delle operazioni.
Le minacce ibride, poi, sono il lato oscuro di questa logica. Vivono nell’ambiguità, si nutrono di incertezza, prosperano sul dubbio. Mosca ci insegna che destabilizzare non richiede missili: bastano botnet, disinformazione, troll farm e una buona dose di manipolazione algoritmica. In risposta, l’Occidente ha cominciato a usare l’intelligence come atto pubblico di framing. Rivelare chi fa cosa, quando, e come: non per spiegare, ma per definire i contorni morali dello scontro.
Attenzione, però. C’è un confine sottile tra strategia e strumentalizzazione. Tra integrità e spettacolarizzazione. Il trauma post-Iraq ce lo ha ricordato: troppa disclosure, troppo presto, troppo male, e la fiducia implode. Quando l’intelligence viene usata come teatro politico, perde la sua funzione strategica. Peggio: diventa propaganda.
Oggi più che mai, l’equilibrio è instabile. L’informazione è fluida, iper-condivisa, continuamente rilanciata, remixata, e rifratta da un sistema mediatico che non premia la verità, ma l’attenzione. In questo scenario, la credibilità diventa una risorsa scarsa, più del petrolio e più del silicio. Ecco perché ogni rilascio di intelligence deve essere calibrato come un’operazione chirurgica: puntuale, verificabile, credibile. In caso contrario, si rischia un effetto boomerang mediatico che fa più danni di un attacco hacker su scala nazionale.
Un dettaglio curioso: secondo una stima del Georgetown Center for Security and Emerging Technology, oltre il 90% dell’intelligence oggi usata dagli attori statali è open-source. E questo solleva una domanda scomoda: se l’intelligence è ovunque, chi decide cosa è “intelligente”? L’AI farà il lavoro sporco, selezionando ciò che conta? O stiamo semplicemente delegando la nostra capacità strategica agli algoritmi del feed?
In questo nuovo ecosistema, il deterrente non è più solo nucleare, economico, o militare. È narrativo. Si misura in secondi di attenzione, non in megatoni. La coesione nazionale si gioca nei retweet, non nei proclami ufficiali. E la vera arma non è il missile ipersonico, ma la capacità di rendere visibile l’intento ostile al momento giusto.
Forse è qui il nodo: l’intelligence non è più un’arte della segretezza, ma una scienza della visibilità selettiva. Chi controlla cosa viene mostrato, quando, e come, esercita un potere più profondo della forza bruta. Perché in un mondo che galleggia nel rumore, la coerenza è oro, e la narrativa è la nuova geopolitica.
E se questo vi sembra distopico, chiedetevi: a chi serve davvero non sapere?