È la nuova estetica della Silicon Valley: mescolare biohacking, AI e decisioni di vita come se fossero righe di codice in un sistema distribuito. Alexandr Wang, ex enfant prodige dell’AI e fondatore di Scale AI, oggi parcheggiato a Menlo Park dopo aver venduto metà della sua creatura, ha dichiarato che aspetta a fare figli finché Neuralink non sarà “pronta”.
Neuralink, ricordiamolo per chi non vive in un bunker a tema Musk, è l’azienda che promette un’interfaccia neurale diretta cervello-macchina. Fantastico. Se vuoi ascoltare Spotify con il talamo.
Ma qui la questione è un’altra. Aspettare a fare figli finché non potrai collegarli via Bluetooth al tuo subconscio non è futurismo, è fantascemenza. E soprattutto è l’ennesima manifestazione di un’ideologia tossica che riduce ogni aspetto umano a una questione di ottimizzazione. Genitorialità come un upgrade software, come se la creazione di un essere umano fosse equivalente a scegliere tra un MacBook Pro M3 o M4.
Questa affermazione rivela più di quanto Wang vorrebbe. L’AI non è solo la sua industria, è la sua ontologia. L’universo è computazionale, l’uomo è macchina, il figlio è un device in attesa di patch neuronale. E in fondo questa narrativa si allinea perfettamente con l’élite techno-liberista che ha colonizzato ogni angolo del nostro futuro possibile.
Eppure, nonostante la retorica transumanista che si spaccia per razionalismo, l’idea che i figli possano essere migliori se nati in un’epoca di upload mentale è una mutazione pericolosa del pensiero darwiniano in salsa Silicon Valley. Da “survival of the fittest” a “survival of the brain-linked”.
Come se la complessità, la bellezza, e perfino la tragedia della genitorialità potessero essere domate con un chip.
Ma dietro questa frase c’è anche un’ansia latente. Quella di chi vive dentro un presente che ha promesso il futuro e non lo ha ancora consegnato. L’hype perpetuo di una tecnologia sempre sul punto di rivoluzionare tutto, ma che intanto ti lascia lì, ad aspettare l’evoluzione come una release che tarda.
C’è dell’ironia in tutto questo. L’uomo che ha costruito un impero di annotazione dati per addestrare AI è ora lui stesso intrappolato in un dataset culturale che non riesce a processare. Un mondo dove l’intelligenza è valutata in benchmark, e la vita reale… è solo latenza.
Ma anche i geni possono dire stupidaggini. Perché essere brillanti in AI non significa automaticamente avere una visione coerente sul piano umano. La storia è piena di scienziati che hanno creato meraviglie e poi fallito miseramente con le persone. Social skills downgrade. E Wang, nel voler programmare il momento perfetto per procreare, sta solo confessando un limite tipicamente ingegneristico: la paura del caos, dell’imprevisto, dell’organico.
Fare un figlio, invece, è tutto il contrario. È l’anti-algoritmo. È un fork del tuo destino che non puoi né prevedere né controllare. È bug, è patch, è fallimento creativo. È deep learning, ma quello vero.
E infine, c’è un tema meno detto ma centrale: l’ossessione della tech élite per il controllo genetico, neurologico, e riproduttivo. Come se l’umano andasse migliorato, potenziato, correttamente selezionato. Siamo ancora lì, col sogno eugenetico ribrandizzato in interfaccia neurale. Ma non importa quanto lo chiamiamo “potenziamento cognitivo”: se il presupposto è che i figli di oggi sono inferiori perché privi di un chip cerebrale, stiamo semplicemente mascherando con linguaggio ingegneristico una vecchia ansia da superuomo.
Il fatto che Wang lo dica con la nonchalance di chi annuncia un feature rollout è inquietante e affascinante insieme. Ma è anche una finestra su una cultura dove l’empatia è un vettore secondario, e l’umanità, in fondo, un inconveniente temporaneo da correggere al prossimo aggiornamento.
Forse, più che un chip, serve un po’ di disconnessione. Anche solo per ricordarci che i figli non si programmano. Si amano.