Il cielo sopra l’America è libero, o almeno così lo vuole Donald Trump. Con la sua recente firma su una serie di ordini esecutivi che allentano le restrizioni sui droni commerciali, sulle auto volanti e sui jet supersonici, l’ex presidente promette di “ripristinare la sovranità dello spazio aereo americano”. Una frase che, messa su carta intestata della Casa Bianca, suona come l’inizio di una rivoluzione tecnologica. O come l’innesco di un disastro.
Se sei un innovatore della Silicon Valley, un fondo di venture capital, o semplicemente uno smanettone con un DJI e un sogno, questa sembra l’età dell’oro. Se invece indossi un’uniforme del Dipartimento della Difesa o hai un radar puntato su infrastrutture critiche, potresti pensare che stiamo assistendo all’alba di una nuova corsa agli armamenti — questa volta silenziosa, autonoma, e a bassa quota.
Chi ha orecchie per intendere, droni per colpire.
L’idea che i droni possano essere sia strumenti di progresso che armi di distruzione non è nuova. Ma la novità è che la politica americana sta accelerando verso l’integrazione di questi strumenti nello spazio civile proprio mentre il mondo ne mostra l’uso più spaventoso. Non è più uno scenario da fantascienza: i droni commerciali sono stati trasformati in missili artigianali, esplosivi volanti, agenti invisibili dell’era della guerra asimmetrica. Non serve un F-35 per creare un danno da milioni di dollari; bastano 300 dollari su AliExpress e una batteria carica.
Basta osservare cosa è successo in Ucraina. Durante l’Operazione Spider Web, Kiev ha schierato 117 droni modificati, pilotati con intelligenza artificiale e visuale in prima persona, per colpire aeroporti militari in profondità nel territorio russo. Un attacco elegante, chirurgico e devastante — e soprattutto, low-cost. Come un UberEats della morte.
E come in ogni guerra moderna che si rispetti, l’esempio viene subito esportato. In Sudan, i ribelli dell’RSF hanno usato droni contro aeroporti. In Giordania, un avamposto americano è stato colpito da un gruppo affiliato all’Iran. In mare, droni hanno incendiato una barca del “Gaza Freedom Coalition” al largo di Malta. E poi c’è l’Iran, dove Israele — secondo fonti d’intelligence — ha creato un hangar clandestino vicino Teheran da cui sono partiti droni per colpire missili puntati verso Tel Aviv. Sembra una spy story di Le Carré, ma è solo il notiziario di giovedì.
L’ironia feroce è che mentre il mondo militarizza i droni, Washington li deregolamenta. L’ordine esecutivo firmato da Trump non è solo un lasciapassare per le startup del settore: è un manifesto ideologico, una dichiarazione di guerra alla burocrazia dell’aria. Zone di volo ristrette sono state ridefinite, è stato creato un centro nazionale di addestramento droni, e viene promossa la cooperazione tra agenzie federali e locali. In teoria, suona tutto bene. In pratica, secondo molti esperti, è come aprire il pollaio e appendere un cartello con scritto “benvenuti, volpi”.
Eric Brock, CEO di Ondas Holdings, non è uno qualunque. Produce droni autonomi e sistemi anti-drone, quindi vive nel cortocircuito perfetto tra opportunità e paranoia. Dice che ora è più facile investire in tecnologie per la sicurezza, ma avverte che le minacce sono concrete: dai porti ai data center, dagli stadi ai parchi a tema, ogni infrastruttura è ora vulnerabile. E la risposta locale spesso non è all’altezza, per motivi legali o tecnologici.
Il paradosso è che nessuno nega l’utilità civile dei droni. Dal trasporto medico d’urgenza all’agricoltura di precisione, fino al monitoraggio ambientale, i benefici sono reali. Ma la realtà geopolitica non si piega ai sogni degli innovatori di Detroit. E mentre noi pensiamo a come farci recapitare il sushi via drone, qualcun altro pensa a come usarli per paralizzare una rete elettrica o sabotare una raffineria.
Grant Jordan, CEO di SkySafe, dice che la gente ha paura dei droni non tanto per ciò che fanno, ma per ciò che non si sa su di loro. Un drone è anonimo, invisibile, spesso indistinguibile tra buono e cattivo. Non è come un elicottero della polizia, con il logo in bella vista. È un piccolo oggetto che vola e può tutto. E, come insegna ogni thriller distopico, ciò che può tutto spesso finisce per farlo.
Michael Healander, CEO di Airspace Link, resta sul vago. Quando gli si chiede se le guerre con i droni siano state discusse durante i colloqui con la Casa Bianca, risponde diplomaticamente che “gli ordini esecutivi riflettono la consapevolezza che la tecnologia sta trasformando le operazioni commerciali e i conflitti moderni.” Una frase che sembra uscita da un white paper del World Economic Forum. Ma nel sottotesto c’è una verità nuda e cruda: nessuno ha il controllo di questa corsa. La stiamo alimentando in nome dell’innovazione, ma potremmo pagarla in sangue.
Nel frattempo, l’opinione pubblica, disorientata dal volo di questi piccoli messaggeri del futuro, si divide tra entusiasmo e terrore. I droni sono come la stampa a caratteri mobili nel Rinascimento: cambieranno tutto, ma non ci diranno in anticipo se sarà per il meglio. E in un mondo in cui l’intelligenza artificiale guida sciami autonomi e le criptovalute finanziano le armi, la domanda non è se i cieli saranno sicuri, ma per quanto ancora lo saranno.
Nel frattempo, Bitcoin regge. Anche se il Medio Oriente brucia, i mercati cripto si limitano a scrollarsi addosso un -4% e andare avanti. Come a dire: “Abbiamo visto di peggio.”
Ma il peggio potrebbe ancora arrivare. Non dai satelliti o dai missili ipersonici. Ma da uno stormo di piccoli droni neri, usciti dal garage di qualche ventenne. E lì, forse, ci accorgeremo che la sovranità aerea non si difende con le firme, ma con i firewall. E con un radar sempre acceso.