“Non ci sono amici permanenti, né nemici permanenti, solo interessi permanenti.” Henry Kissinger, seppur in tutt’altro contesto, avrebbe colto perfettamente il sapore metallico che aleggia nei corridoi di OpenAI e Microsoft. La loro partnership, celebrata come la più rivoluzionaria alleanza del XXI secolo in campo tecnologico, sta sfaldandosi sotto il peso delle ambizioni divergenti (WSJ). E mentre Satya Nadella e Sam Altman rilasciano dichiarazioni congiunte che odorano di cerotto diplomatico, dietro le quinte si prepara uno scontro nucleare — metaforico, ma potenzialmente letale.

Al centro di questa nuova guerra fredda c’è un obiettivo strategico che tutti nel settore chiamano col nome sbagliato: controllo. OpenAI vuole affrancarsi dal guinzaglio di Redmond, mentre Microsoft gioca a Risiko con le licenze, il codice, i modelli e perfino i data center. Sotto la scorza delle PR impeccabili, la realtà è che non si fidano più l’uno dell’altro. E quando la fiducia salta, l’AI smette di essere “intelligente” e diventa solo “artificiale”.

La keyword che regge tutta questa guerra è AI partnership, ma è un ossimoro che oggi suona come una beffa. Le parole sono importanti, come ricordava Nanni Moretti. Ecco perché quando OpenAI minaccia di portare Microsoft davanti alla Federal Trade Commission per “comportamento anticoncorrenziale”, non è solo una strategia negoziale. È l’inizio di una guerra di trincea con i regolatori come baionette e i comunicati stampa come proiettili.

Cosa c’è in gioco, davvero? Non solo i 20 miliardi che OpenAI rischia di perdere se non si converte in public benefit corporation entro fine anno. Non solo il controllo su Windsurf, il piccolo coding startup che fa gola perché rappresenta il nuovo petrolio: codice generativo ad alte prestazioni. Il vero nodo è l’accesso esclusivo ai modelli di frontiera, quell’oro nero computazionale che Microsoft rivendica come propria eredità contrattuale, ma che OpenAI non vuole più condividere.

E qui scatta l’ironia cosmica: l’azienda che per prima ha rivendicato di “non fare il male” (citazione apocrifa, ma Google ringrazia) è la stessa che ora sussurra ai regolatori che forse il partner di una vita ha giocato sporco. Chiamare in causa l’antitrust in una relazione da miliardi è l’equivalente aziendale del divorzio con addebito per infedeltà. Solo che qui non si litiga per un appartamento a Chelsea, ma per l’intelligenza artificiale che un giorno potrebbe scrivere la Costituzione digitale del mondo.

Microsoft, dal canto suo, non si fa trovare impreparata. La sua strategia è chiara: stringere i bulloni. Vuole una fetta più grande del futuro OpenAI-incorporated, vuole perpetuare l’accesso prioritario anche dopo l’arrivo dell’Artificial General Intelligence, e vuole che Stargate — il progetto datacenter indipendente di OpenAI — non diventi la base di lancio per un’AI fuori dal suo controllo. Una mossa lucida, perfino ovvia, per chi ha investito 13 miliardi di dollari e ha costruito un impero cloud intorno a Copilot, Azure e Office 365 reimmaginati con GPT.

Ma ecco l’altro colpo di scena: oggi, OpenAI e Microsoft non sono più alleati, ma concorrenti diretti. Competenze sovrapposte, prodotti in collisione, linguaggi simili ma visioni divergenti. Copilot e ChatGPT si contendono le stesse aziende, le stesse API, gli stessi sviluppatori. La frizione è inevitabile. E come ogni sistema chiuso sotto pressione, esploderà — non con uno scoppio, ma con una lunga e dolorosa disintegrazione.

Sam Altman, che fino a ieri sembrava il monaco zen dell’AI, ora veste i panni del negoziatore spietato. Sta tentando di aprire l’ecosistema OpenAI ad altri fornitori di cloud — una mossa che infrange la sacra alleanza con Azure. E nel frattempo, cerca capitali nuovi, ma ha bisogno della benedizione di Microsoft per cambiare statuto. Qui la trappola giuridica si fa perfetta: è come se un carcerato chiedesse al secondino il permesso per evadere.

Non sorprende che tra i corridoi si sussurri l’opzione più estrema: l’arma atomica della denuncia pubblica e regolatoria. Una manovra che, sebbene azzardata, potrebbe ridefinire tutto l’equilibrio dell’AI moderna. Perché se OpenAI scatenasse una revisione antitrust profonda, non si fermerebbe a Microsoft: i fari si accenderebbero su Google, Amazon, Anthropic, Nvidia. Tutti a ballare sulle uova.

In sottofondo, aleggia la questione più filosofica e meno detta: chi comanderà l’intelligenza artificiale quando diventerà troppo intelligente per essere controllata? Il contratto attuale dice che, in caso di AGI, la partnership si scioglie. Ma Microsoft vuole un’estensione. OpenAI dice ni. E intanto i modelli si moltiplicano, migliorano, scalano. Non siamo lontani dal momento in cui servirà un G7 dell’intelligenza per capire chi ha il dito sul bottone, e chi ha solo la brochure.

In tutto questo, la vera vittima è la narrativa. Per anni ci hanno raccontato che l’AI sarebbe stata open, democratica, condivisa. Invece si è rivelata un campo minato di contratti blindati, NDA, e strategie cloud-centriste. Chi oggi sogna una AI libera e interoperabile dovrebbe leggere attentamente i fogli Excel con le clausole d’accesso preferenziale. Perché la verità è che la AI non è per tutti. È per chi controlla le GPU e i prompt.

E mentre il pubblico gioca con ChatGPT e Copilot come se fossero magie digitali, in realtà sta solo guardando un gigantesco gioco di potere travestito da innovazione. I veri protagonisti non sono i modelli, ma le condizioni contrattuali. Non i prompt, ma i permessi di deployment. E a volte, le vere intelligenze artificiali non sono quelle nei server, ma quelle nei boardroom.

Altro che rivoluzione etica. Qui si combatte una guerra molto, molto umana.