Per anni è sembrata una boutade da congresso nerd o una distopia da whitepaper con troppa caffeina: dollari digitali emessi da privati, regolati da leggi federali, scambiati come se fossero moneta vera. Ora non è più teoria. È politica. È legge. È Trump.
Martedì sera, con un inaspettato 68-30, il Senato degli Stati Uniti ha approvato una legge storica che regolamenta per la prima volta in modo organico le stablecoin ancorate al dollaro. Il cripto-dollaro ha quindi trovato casa tra le istituzioni. O almeno, una stanza degli ospiti.
È un momento di svolta che fonde fintech, potere esecutivo e interessi privati in una pozione legislativa quasi psichedelica. E ovviamente, nella bottiglia c’è il marchio Trump.
Il fatto che una stablecoin affiliata all’ex Presidente abbia già un market cap di 2 miliardi di dollari è, se vogliamo, solo la parte più gustosa dell’ironia. I democratici hanno cercato — invano — di inserire un emendamento per impedire che l’ex Commander-in-Chief lucri direttamente dai suoi prodotti digitali mentre si ricandida. I repubblicani hanno risposto come se si parlasse di censura cinese: nulla da fare.
E così, mentre le banche minori si mordono le unghie per la prospettiva di un’ulteriore fuga di depositi, i giganti di Wall Street studiano il modo di emettere stablecoin “a marchio proprio”, pronti a incassare milioni dagli interessi delle riserve. Il mondo bancario, finora protetto dal recinto dorato della Federal Reserve, si ritrova ora a condividere lo spazio con gli stuntmen della DeFi, i mercanti del digitale e gli oligarchi delle piattaforme.
Non è un caso se il senatore Bill Hagerty, uno degli sponsor del disegno di legge, ha sottolineato di aver “parlato con Trump” e che l’ex presidente “non vede l’ora di firmare” questo provvedimento. Per chi ha orecchie da intendere, è già una forma di promessa: la presidenza 47, quella che Trump sogna, sarà cripto-compatibile, magari anche cripto-dipendente.
Dietro l’apparente consenso bipartisan — una merce rara nel senato post-Trump — si nasconde l’impronta di una delle campagne di lobbying più aggressive della storia americana recente. Centinaia di milioni di dollari versati da venture capitalist, fondi crypto e corporate PAC hanno plasmato una nuova maggioranza a Washington, quella del “bitcoin caucus”. I finanziamenti alle elezioni di midterm del 2026 sono già pianificati, con una precisione chirurgica degna di uno smart contract.
Il messaggio è chiaro: chi vuole sopravvivere nell’America finanziaria del futuro, deve essere crypto-friendly. O almeno, fingere di esserlo.
Naturalmente, la legge impone requisiti minimi: le stablecoin devono essere coperte 1:1 da riserve in titoli di Stato a breve termine o strumenti simili, sorvegliati da autorità federali o statali. Un contentino alle agenzie regolatorie e ai fan della trasparenza, utile a rendere l’innovazione più digeribile al grande pubblico. Le banche protestano, ma i retailer applaudono: pagamenti più rapidi e meno costosi delle carte di credito, senza le fee usuraie dei circuiti tradizionali. Un piccolo assaggio di futuro, servito su piatto bipartisan.
Ma il nodo politico è più profondo. Con questa legge, il confine tra finanza pubblica e finanza privata non è solo sfumato: è diventato liquido. Se anche le big tech potranno emettere stablecoin — come la legge attuale lascia intendere — si apre una nuova stagione di disintermediazione monetaria. Addio alla sacralità della separazione banca-impresa. Benvenuti nel far west della moneta aziendale. AmazonCoin, TeslaDollar, MetaStable? Non è più fantascienza. È solo burocrazia in attesa di firma.
C’è anche un paradosso epistemico: mentre la normativa cerca di mettere ordine nel disordine cripto, non risolve il problema della garanzia finale. Se un’emittente fallisce? Nessuna assicurazione federale protegge gli utenti. Nessuna FDIC a coprire le perdite. Eppure, nella mente del cittadino medio, il concetto di “dollaro digitale” resta intrinsecamente legato allo Stato. Lo chiamano “effetto cornice”: se sembra un dollaro, si comporta come un dollaro, allora è un dollaro. Ma non lo è.
Senatori come Elizabeth Warren lo hanno fatto notare, invano. Il mercato — e il voto — hanno già deciso. La domanda globale di dollari potrà persino aumentare, come ha affermato entusiasta il Tesoro, guidato da Scott Bessent. Ma a quale prezzo? Centralità del dollaro sì, ma a scapito della sovranità monetaria e della stabilità sistemica.
Il prossimo passo è alla Camera, dove sono in ballo proposte più ampie che puntano a regolamentare l’intero ecosistema cripto. La domanda ora è se i deputati vorranno accettare il pacchetto già pronto del Senato o se preferiranno negoziare una soluzione più completa. Tradotto: fare in fretta e premiare gli investitori, oppure prendersi il tempo per comprendere davvero dove stiamo andando.
Curiosamente, la storia ci offre un piccolo déjà-vu. Nel XIX secolo, decine di banche emettevano proprie banconote negli Stati Uniti. Un caos monetario talmente ingestibile da portare infine al National Bank Act del 1863. Oggi, siamo al contrario: si legalizza ciò che per decenni è stato evitato con cura. Il cerchio si chiude, ma non necessariamente con ordine.
Il fatto che tutto questo avvenga con Trump a fare da testimonial involontario (ma neanche troppo) è forse la chiusura perfetta di un ciclo narrativo. Il miliardario populista, che ha sempre avuto un fiuto particolare per i business opachi e i mercati liberi da regole, diventa ora anche patrono delle monete algoritmiche. Con buona pace dei banchieri, dei regolatori, e della Federal Reserve.
“Crypto is freedom”, urlano gli evangelisti digitali. Ma il dubbio resta: libertà per chi? E a quale costo?
Intanto il mondo scorre, i dollari diventano token, e la politica americana sembra decisa a monetizzare ogni aspetto del futuro, anche quello che non capisce del tutto.
A proposito, JPMorgan lancerà un token in dollari USA su Base, una blockchain sviluppata da Coinbase che rappresenta un’alternativa alle stablecoin come Tether e USDC di Circle. Il token, denominato JPMD, corrisponde ai depositi in dollari detenuti presso la banca e consentirà ai clienti istituzionali autorizzati di trasferire fondi tra loro in modo quasi istantaneo. A differenza delle stablecoin, che sono generalmente garantite 1:1 da contanti e titoli del Tesoro a breve termine, i token di deposito riflettono direttamente i depositi bancari.