Il mondo trattiene il fiato, mentre a Washington si trattiene il senso del ridicolo. Il segretario alla Difesa Pete Hegseth, ex volto televisivo tramutato in burocrate con accesso al bottone rosso, ha detto tutto senza dire nulla davanti al Senato: la decisione finale spetta al Presidente Donald Trump. Che, com’è suo stile, si comporta come se stesse decidendo tra un cheeseburger e un Big Mac piuttosto che se entrare in guerra con l’Iran.
Durante un’audizione tesa e quasi kafkiana davanti alla Commissione per le Forze Armate, Hegseth si è rifiutato di confermare se sul tavolo ci sia l’opzione “bunker buster”, ovvero le micidiali bombe GBU-57A/B da 30.000 libbre richieste da Israele per disintegrare il centro di arricchimento nucleare iraniano scavato dentro la montagna di Fordow. La domanda implicita: quanto profonda sarà la nostra prossima guerra?
Ma il punto non è tecnico, è politico. È strategico. Ed è tremendamente teatrale. Trump gioca con le minacce come un illusionista di Las Vegas gioca con le colombe: crea suspense, ammicca, distrae. “Potrei farlo. O potrei non farlo”, ha dichiarato davanti ai giornalisti, evocando una dottrina della deterrenza degna di un reality show.
Nel frattempo, l’amministrazione sta alimentando il solito paradosso strategico: mentre promette il “pivot verso l’Asia”, si riimmerge fino al collo nel Medio Oriente. Un déjà-vu che sa di farsa, se non fosse che questa farsa è armata fino ai denti. Perché se gli Stati Uniti dovessero davvero intervenire a fianco di Israele, come suggeriscono le ultime manovre, cambierebbe l’intero assetto geopolitico. Non solo nel Golfo Persico, ma anche nel Mar Cinese Meridionale, dove la Cina osserva con il consueto ghigno confuciano.
La domanda sottile, non detta ma insinuata tra le righe dei senatori democratici come Jack Reed e Mazie Hirono, è questa: stiamo tornando alla dottrina Bush con l’abilità tattica di un feed di Instagram?
I droni che volteggiano sopra basi americane, le schermaglie tra apparati industriali e militari sullo spettro digitale, il mastodontico progetto di difesa Golden Dome da 500 miliardi di dollari che si prepara a diventare il nuovo Stretto di Magellano del Pentagono – tutto parla di un sistema fuori asse, distratto, incapace di scegliere se difendere Taiwan o bombardare Qom.
Ecco che l’Asia, tanto evocata come priorità, diventa di nuovo sfondo. Un errore che la Cina interpreta come un invito. Mentre Washington si riscalda i motori per un conflitto nel deserto, Pechino rafforza le sue flotte, i suoi satelliti, e – soprattutto – la sua narrativa. Nessuna fretta di invadere Taiwan, certo, ma ogni opportunità per lasciarci svuotare magazzini e arsenali in un nuovo inferno persiano.
Un dettaglio non sfugge agli analisti: più l’America si incarta in questo caos multipolare, più Xi Jinping sorride. La sua strategia militare, come ricordato dall’ex colonnello Dennis Blasko, è paziente, strutturata, meticolosa. È ciò che l’America non è più: disciplinata.
Hegseth, accusato apertamente di incompetenza e nepotismo, si difende come può, mentre la sua amministrazione, secondo molti, ha distrutto anni di competenza militare in nome della lealtà personale. E intanto, il vero spettacolo continua nello Studio Ovale, dove Trump – tra un’idea e una dichiarazione a effetto – ribadisce che deciderà all’ultimo secondo. Perché nulla genera più potere di un pubblico che resta col fiato sospeso.
La dottrina Trump – se così possiamo chiamarla – non è deterrenza classica, non è equilibrio del terrore. È un drama loop costruito per massimizzare l’ambiguità, alimentare il ciclo mediatico e consolidare un brand politico fondato sulla sorpresa continua. Una strategia di comunicazione virale, non militare.
Ma sotto la superficie, il quadro è più oscuro. L’uso di armi strategiche come i bunker busters non è una scenetta da social media. È una scelta irreversibile, soprattutto se diretta contro un avversario con capacità nucleari latenti e alleanze pericolose. Iran oggi, ma domani? Un regime collassato al centro del mondo islamico è il miglior regalo che si possa fare a Pechino e Mosca.
E qui si chiude il cerchio: il vero campo di battaglia è globale, ma l’arena si è ristretta alla psicologia del singolo uomo al comando. Un uomo che ama il caos tanto quanto le folle. E mentre il Senato cerca risposte, il mondo assiste a uno dei momenti più instabili della superpotenza americana dai tempi di Nixon. Con la differenza che oggi, invece del Watergate, abbiamo il Signalgate – e un Segretario alla Difesa che condivide piani militari via app.
“Leadership, competenza, esperienza”, ha detto il senatore Reed. Sembra quasi un appello nostalgico a un’epoca in cui i generali leggevano Clausewitz e non Fox & Friends.
E se pensate che tutto questo sia troppo assurdo per essere vero, ricordate: la storia americana recente non ha mai avuto bisogno di sceneggiatori. Le sue guerre, quelle vere, iniziano quasi sempre con una frase detta male in una stanza piena di uomini che giocano a fare gli dèi.
Per ora, Trump lascia la porta socchiusa. L’odore che esce non è quello della vittoria. È polvere da sparo e rating.